Mario Ajello, Il Messaggero 15/4/2013, 15 aprile 2013
LA CAPRIA: «MALAPARTE DISSE DI LUI CHE MANTIENE LA CALMA ANCHE NELL’APOCALISSE»
Raffaele La Capria è lo scrittore di «Ferito a morte» e altri romanzi e saggi che lo hanno reso famoso per il suo sguardo sulla realtà italiana filtrato attraverso la sua napoletanità, che è l’opposto della napoletaneria, come ha spiegato in alcune sue pagine memorabili. E’ amico da sempre di Giorgio Napolitano. «A volte - racconta La Capria, cioè Dudù come lo chiamano tutti - nelle difficoltà profonde nella politica italiana che Napolitano si è trovato ad affrontare durante il suo settennato egli mi è sembrato il personaggio di una tragedia shakespeariana, un Re Lear solitario».
Come conobbe Napolitano?
«Io ho 90 anni, lui 87. Ci siamo conosciuti 70 anni fa al regio liceo ginnasio Umberto I di Napoli, il cui preside, il professor D’Alfonso, era considerato un crociano e dunque sospetto di antifascismo. Questo sospetto si estese a tutto il liceo, e noi che lo sapevamo ne eravamo orgogliosi. Era per noi un segno di distinzione».
Che tipo di scuola era la vostra?
«Giorgio Napolitano non era nella mia classe perché di me più giovane di tre anni, appunto, e a quell’età tre anni contano molto. Ci incontravamo all’uscita delle classi, finite le lezioni, poi ci incontrammo al Guf, che come tutti sanno diventò inavvertibilmente man mano per molti di noi una scuola di antifascismo. Fu lì, al Guf, che si stabilirono le nostre affinità elettive. Fu lì che ci scambiammo idee e sentimenti sulla letteratura, sui grandi scrittori, sul teatro, e fu lì che si strinsero amicizie che sarebbero durate nel tempo: con Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Patroni Griffi, Massimo Caprara, Maurizio Barendson e tanti altri».
Lei non è mai stato comunista. Che impressione faceva, a lei e ai vostri amici, quella scelta di vita di Napolitano?
«Da ragazzi, settant’anni fa, eravamo tutti di sinistra. Tutti sognavamo un cambiamento generale del Paese e delle coscienze, e dunque il fatto che Giorgio Napolitano avesse scelto la via del partito e nel Partito avesse un ruolo di prim’ordine, non ci impressionava affatto. Anzi, ne eravamo orgogliosi. In quel tempo, se si diceva comunista, non si pensava ai lager e alle Siberie, ma al rinnovamento della società italiana. Eravamo allo ”stato nascente”, quando l’ideologia non era ancora una chiusura ma un’apertura verso un futuro che speravamo migliore».
Che Napoli era quella Napoli in cui vi formaste?
«Era la Napoli del dopoguerra, una Napoli scarmigliata e devastata ma piena di una vitalità esplosiva, come se tante energie compresse negli anni di guerra venissero improvvisamente liberate. Non c’è mai stata a Napoli tanta vita, e il cinema di De Sica e di Rossellini, gli scrittori Rea, Ortese, Compagnone, ce ne hanno lasciato il ricordo».
Lei ricorda in quel periodo Giorgio Amendola, il maestro di Napolitano?
«Giorgio Amendola non l’ho mai conosciuto di persona, so che era uno dei capi comunisti più dialogante e meno rigido degli altri. Ma allora io non mi occupavo di politica, pensavo più ai libri che volevo scrivere, la letteratura mi sembrava più importante della politica».
Che cosa univa un ragazzo come lei e uno come Napolitano?
«Il teatro e i grandi libri erano il vero legame in quegli anni: più Conrad, Melville, Hemingway che Marx».
Era un bravo attore, quando tentò di farlo, il futuro presidente?
«Non credo che Napolitano sia stato un buon attore, ma certo amava molto il teatro e se avesse potuto avrebbe scelto quella strada, più come regista però. Regista è diventato in seguito, ma in altro senso, nel senso di chi regge le sorti di un Paese».
Come lo definirebbe come uomo politico? Un socialista? Un liberale? Un pragmatico? Un idealista?
«Se dovessi per forza affibbiargli una delle definizioni che mi suggerisce, non lo direi né socialista né liberale né pragmatico. Preferirei una definizione più generica: crociano, cioè uno che ha appreso la lezione di Croce e l’ha svolta a modo suo».
Avete avuto di recente scambi di opinioni politiche?
«Ultimamente sono stato invitato per un weekend a villa Rosbery e abbiamo parlato di molti ricordi comuni, degli amici che non ci sono più, e abbiamo toccato anche qualche argomento politico: se ben ricordo, la disparità economica che oggi in Italia sta diventando insostenibile».
E’ un politico freddo o un politico passionale sotto il suo aplomb?
«Napolitano non è un politico freddo, è un politico consumato, di grande e affidabile esperienza se si pensa alle acque agitate che ha dovuto attraversare. Curzio Malaparte gli dedicò il suo libro ”Kaputt” con questa dedica: ”A Giorgio Napolitano che mantiene la calma anche nell’Apocalisse”. Mi sembra una dedica profetica. Anche nei momenti più difficili l’ho sempre visto tranquillo come un timoniere con lo sguardo fisso in avanti. Oggi il mare è talmente agitato che qualsiasi timoniere sarebbe preoccupato. Negli ultimi tempi, e fino a queste ore che stiamo vivendo, tanti, troppi problemi, quasi insolubili, ha posto sulle sue spalle l’atavica rissosità italiana. Pensando alla sua età, al peso che ha dovuto portare, mi sono sentito e mi sento molto vicino al presidente».
A questo Re Lear solitario, come lo chiama lei?
«Forse esagero in questa definizione shakespeariana, ma avendo un’età vicina alla sua so che cosa significa la solitudine e la stanchezza. Soprattutto quella».