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 2013  aprile 15 Lunedì calendario

NAPOLITANO, I SETTE ANNI AL COLLE

(due articoli del Messaggero) -
«Sarò il Presidente di tutti, non della sola maggioranza che mi ha eletto». Queste parole pronunciate da Giorgio Napolitano nel discorso d’insediamento davanti alle Camere, il 15 maggio 2006, sembrarono a molti dettate dall’esigenza di lanciare un messaggio rassicurante, di riconciliazione, di fronte ad un Paese uscito letteralmente spaccato in due dalla prova elettorale, con una maggioranza risicata di centrosinistra che aveva portato lo stesso Napolitano sul Colle. Invece è stato sufficiente seguire i primi passi del settennato per rendersi conto che quella volontà di interpretare la coscienza nazionale, al di là degli interessi di parte, è stata e sarebbe stata la bussola di tutta l’azione dell’undicesimo capo dello Stato.

IL DOPO CIAMPI
Un settennato, va detto subito, che si è caratterizzato per la forte azione politica dell’inquilino del Colle. D’altra parte, era quasi scontato che, arrivato alla presidenza della Repubblica come senatore a vita (nominato dal suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi) e con un «cursus honorum» che lo aveva visto militare per quasi mezzo secolo nelle fila del Partito comunista (anche se a lungo in una posizione critica) e quindi approdare ai vertici delle istituzioni come presidente della Camera, ministro degli Interni e presidente della Commissione affari costituzionali dell’Europarlamento, Napolitano avrebbe dato al suo mandato una speciale impronta politica. Politica, sia chiaro, nel senso più alto (e purtroppo desueto) del termine, intesa cioè come servizio alla ricerca di soluzioni per il bene comune.Il che significa mantenersi rigorosamente entro i limiti della Costituzione che attribuisce un ruolo terzo, arbitrale al capo dello Stato, come «un magistrato di persuasione» ma non lo relega certo ad una funzione meramente rappresentativa di «spettatore inerte e silente».

GLI APPELLI PER LE RIFORME
Appena eletto, Napolitano deve registrare la sconfitta nel referendum popolare della legge di revisione costituzionale voluta dal centrodestra. Ne approfitta per lanciare un appello a «riforme mirate» della seconda parte della Costituzione, da realizzare con un’ampia maggioranza. Sarà uno dei cavalli di battaglia del settennato ma - insieme alla riforma della legge elettorale - sarà anche uno dei due temi-chiave in cui gli appelli, sovente accorati, del Quirinale non sortiranno gli effetti desiderati.
Per buona parte del settennato, il percorso politico di Napolitano sembra ricalcare - sotto un certo aspetto - quello di Ciampi. All’inizio si confronta con un governo di centrosinistra poi - a partire dal 2008 - con un Berlusconi premier redivivo. I rapporti tra il Colle e il Cavaliere non sono idilliaci. Tutt’altro. Basti ricordare il «lodo Alfano» bocciato dalla Consulta, il «caso Englaro», gli scontri sulla giustizia e così via. Fino ad un certo periodo, Napolitano si sforza di smorzare i toni, si serve delle armi della «moral suasion» per cercare di svelenire il clima. Persegue una linea rigorosamente europeista e utilizza anche le solenni cerimonie per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia per lanciare messaggi unificanti, di concordia nazionale.
A chi scrive e a Giuseppe Mammarella che lo intervistarono per il volume laterziano «Il Quirinale», Napolitano sottolineò con toni allarmati la «necessità di superare un’atmosfera divisiva di guerriglia, di guerra civile strisciante».
Poi, però, avviene il fatto nuovo, sconvolgente, che richiede a Napolitano un supplemento di partecipazione e di vigilanza.

LA GRANDE CRISI
E’ la grande crisi economico-finanziaria dell’Eurozona che nell’autunno del 2011 costringe alla resa il governo Berlusconi che - tra scissioni e abbandoni - aveva perso molti pezzi della sua maggioranza. Di fronte all’impasse politica e al rischio di una bancarotta (con lo spread alle stelle) esce dal cilindro di Napolitano la soluzione Monti con la preliminare nomina del Professore a senatore a vita e quindi il «via libera» ad un «governo del Presidente». E’ evidente che da quel momento cambia il ruolo di Napolitano. Il Quirinale diventa lo snodo centrale dello scenario politico-istituzionale in sintonia a quell’assioma per cui quando i governi sono deboli cresce il ruolo del Colle, viceversa. Tocca a Napolitano farsi carico di rassicurare i partner europei. Barack Obama, Angela Merkel si fidano soprattutto di lui, il vero «deus ex machina». La sua popolarità è a livelli di record. Per il «N.Y. Times» è «Re Giorgio». L’obiettivo è una ritrovata stabilità del Paese per favorire la crescita. Ma il disegno non si completa, la crisi sociale diventa sempre più acuta. Riaffiora presto la rissosità dei partiti, Monti è costretto a dimettersi in anticipo e decide di scendere in campo (due scelte che Napolitano accetta ma non condivide).
Nella parte finale del settennato è costretto ad un supplemento di lavoro, ad una «missione impossibile» per cercare di dare un governo al Paese dopo un voto segnato dalla valanga grillina e da tre minoranze si delegittimano a vicenda. Svanisce il suo sogno di un sistema bipolare per un Paese finalmente «normale». Gli appelli per le riforme, i suoi moniti ai partiti contro la corruzione per non dar fiato alle sirene dell’antipolitica non sono stati ascoltati. Resta quell’impegno originario ad essere il Presidente di tutti, testimoniato dal rispetto generale e dall’affetto con cui si accinge a concludere il mandato.
Paolo Cacace

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DA GENTILUOMO DELL’EX PCI A ICONA NAZIONAL-POPOLARE -
Come può diventare una figura pop un borghese napoletano di famiglia liberale, un comunista italiano sempre dedito alla vita di partito e al lavoro nelle istituzioni fino a diventare Capo dello Stato, un uomo totus politicus allergico alla demagogia e lontanissimo da ogni atteggiamento da applauso facile? Napolitano questo percorso imprevedibile e ”caldo” lo ha fatto, fino a trasformarsi non in Re Giorgio, come erroneamente viene soprannominato, ma nel simbolo di quella «connessione sentimentale» - così la chiamava uno dei maestri della sua generazione, Antonio Gramsci - tra i politici e i cittadini. Una connessione particolarmente necessaria, e ciò è apparso subito lampante a Napolitano fino a dettarne la strategia nazional-popolare, in una fase di profonda lacerazione tra le istituzioni e la società, che egli sta tentando fino alla fine di suturare.

EFFETTO PERTINI
La figura a cui si deve guardare, quando si cerca un presidente capace di interpretare il suo ruolo istituzionale per garantire un dialogo costante con i cittadini, è quella di Sandro Pertini. Il quale fu - a partire dal ’78, quindi in una stagione drammatica per il nostro Paese - il presidente degli italiani, il presidente dei giovani, il presidente della speranza e del futuro. Questo tratto, questa capacità e volontà di rappresentare i cittadini, di aprirsi al dialogo e di guardare ai giovani come primario vettore di futuro, è un’eredità pertiniana che si rintraccia con chiarezza nel percorso di Napolitano durante il settennato. Eppure, fra Pertini e Napolitano, si tratta di due persone diverse in tutto, a cominciare dal punto di vista dei caratteri.
Il miracolo di San Giorgio, il quale negli indici di popolarità ha superato tutti i suoi predecessori anche grazie all’operazione Centocinquantenario dell’Unità d’Italia a cui agli inizi nel 2011 ha creduto soltanto lui, sta proprio in questo. Nella trasformazione di un professionista della politica in figura di riferimento corale di un Paese desideroso di riconoscersi in qualcuno e in qualcosa, in un momento di smarrimento e di crisi. Nella cassetta degli attrezzi del presidente, insieme alla ratio cartesiana e a quel togliattismo che a torto viene ritenuto algido, si è fatto largo il cuore. Niente a che vedere, naturalmente, con la svenevolezza. Semmai, con la capacità di commuoversi per i morti sul lavoro - ai quali ha dedicato il primo discorso di Capodanno da presidente e vari altri successivamente - e con l’insistenza continua su questo tema che fu una delle molle del suo impegno giovanile e che si è tradotto nel Testo unico sulla salute e la sicurezza sul lavoro (varato nell’aprile 2008) per la cui approvazione Napolitano si è battuto senza risparmio.

ISTITUZIONI AL PRIMO POSTO
Il presidente pop è quello che ha battuto e ribattuto, mettendosi dalla parte della gente senza mai assecondarne gli umori più eccessivi, sui limiti della politica (un bel capovolgimento rispetto alla cultura di provenienza, quella del Primato della Politica, scritto tutto in maiuscolo), sulla necessaria autoriforma dei partiti, sull’obbligo per le forze di governo e di opposizione di uscire dall’autoreferenzialità rissosa e paralizzante per mettersi a disposizione degli interessi dei cittadini. Il codice pop del presidente iper-politico sta appunto in questo sforzo di rilegittimare le istituzioni, prendendosi cura delle critiche provenienti dai cittadini e assumendone senza retorica le ragioni di fondo. Ciò che poi è esploso con Grillo, Napolitano lo ha preventivamente sentito e combattuto, scendendo dal piedistallo del Colle (o aprendo le porte di quel luogo alle istanze provenienti dal basso) e cercando di diventare, per quanto è possibile e con tutte le ovvie difficoltà del caso, se non uno di noi almeno uno vicino a noi. Senza rinunciare però, in cambio di qualche applauso in più, a quelle convinzioni controcorrente che fanno parte del suo Dna: per esempio all’insistenza, davanti a tutti i problemi, sulla ricerca del «compromesso migliore» e del «bene possibile». Il tutto in un quadro - ben sintetizzato nel libro di un autore giovanissimo, Tobia Zevi, «Il discorso di Giorgio» (Donzelli) - nel quale «coesione, solidarietà, responsabilità» sono le parole forti del settennato e «il primo nucleo del lascito concettuale» di questo presidente.

IMPEGNO PER I DETENUTI
Il Napolitano pop è quello dell’incontro costante con i carcerati in quanto simbolo delle sofferenze che si patiscono per un sistema che non funziona. Alla prima del film dei fratelli Taviani, «Cesare deve morire», nel cinema di Nanni Moretti, il Sacher, i detenuti-attori di Rebibbia hanno accolto Napolitano con un calore che ha fatto impressione ai presenti. Trattandolo con la familiarità di chi sente vicino quel personaggio lontano. E dicendogli: «Presidente, ha fatto più lei, per cercare di migliorare le condizioni delle nostre vite perdute e dimenticate nelle prigioni, di qualsiasi altro politico da quando esiste questa nostra Repubblica». Poi, anche la visita di Napolitano a San Vittore può essere annoverata come una delle scene madri di questi anni in cui l’inquilino del Palazzo, il prodotto più puro dell’Italia politica, ha mostrato una sensibilità sociale di forte impatto emozionale. Ma priva di quegli eccessi drammatici o, peggio, melodrammatici, che pure fanno parte della nostra tradizione pubblica.
E qui varrebbe la pena di ricordare un tratto del temperamento di Napolitano - la calma - che in tempi remotissimi, a Capri, colpì Curzio Malaparte al punto che l’autore di «Kaputt» regalò una copia del libro al giovane Giorgio, con una dedica che elogiava proprio questa capacità di mantenere la calma «anche davanti all’Apocalisse». Una dote che gli italiani, forse perchè ci piace specchiarci nel diverso, hanno saputo massimamente apprezzare nel presidente pop.
Mario Ajello