Luca Piana; Gloria Riva, l’Espresso 12/4/2013, 12 aprile 2013
AIUTO, È FINITA LA CASSA
Doveva salvare i posti di lavoro. E, nel frattempo, aiutare gli imprenditori a restare in piedi, superando i momenti di difficoltà. Oggi , quando va bene, la cassa integrazione serve ad addolcire la pillola delle fabbriche che chiudono. Quando va male, invece, nasconde delle vere e proprie truffe ai danni dello Stato.
Difesa a spada tratta da sindacati e imprenditori, che nel buio della recessione non vogliono abbandonare una delle poche certezze su cui possono contare, proprio in questo momento di crisi la cassa integrazione sta cambiando pelle. Nata come una forma di aiuto per i periodi balordi, un modo per parcheggiare temporaneamente i lavoratori in attesa di tempi migliori, si sta trasformando sempre più in anticamera del licenziamento. Un mezzo che consente alle aziende di diluire le proteste, invece di cercare il rilancio.
Gli esempi sono disseminati lungo tutta la penisola. A Faenza, nella fabbrica Omsa delle calze Golden Lady, dopo due anni di cassa straordinaria sono stati reimpiegati da un produttore di divani solo 145 dei 350 addetti, in gran parte donne. Tra gli impianti di Sondrio e Lecco, la Riello ha utilizzato cinque anni di cassa più tre di mobilità, delocalizzando in Polonia la produzione delle sue caldaie. A Cremona la Tamoil ha chiuso una raffineria dove lavoravano in 300, strappando cinque anni di ammortizzatori sociali. A Fabriano la quasi totalità dei 2 mila dipendenti della Antonio Merloni è in cassa dal 2009, con scarse probabilità di tornare a produrre gli elettrodomestici. Mentre il fallimento della Agile Eutelia ha lasciato a spasso mille impiegati e addetti ai call center, costretti prima in cassa a zero ore, poi in mobilità.
Per capire come la cassa si è scassata si può partire da due numeri emblematici. Il primo è il disavanzo di 5,8 miliardi che, negli ultimi quattro anni, si è creato nella gestione della cassa integrazione tradizionale, quella che non dovrebbe vivere di fondi pubblici ma alimentarsi con i contributi versati da lavoratori e imprese (per le diverse tipologie di questo ammortizzatore sociale, vedere la scheda a fianco). Un saldo negativo che rappresenta una novità mai vista, nemmeno nei momenti più duri delle mega manovre finanziarie degli anni Novanta. E che preoccupa, alla luce di una recessione che vede chiudere nella sola provincia di Bologna, una delle più dinamiche d’Italia, sette fabbriche al giorno.
Il secondo dato che racconta la trasformazione della cassa è rappresentato dai 10,8 miliardi di fondi pubblici che, in soli quattro anni, è costato uno specialissimo tipo di cassa, quella detta in deroga, voluta a fine 2008 dall’allora ministro Giulio Tremonti. Soldi che non sempre sono stati spesi bene, considerando che la cassa in deroga si è rivelata in questi anni la più soggetta a truffe e abusi, come racconta l’articolo di pagina 120. Tuttavia, ora che quei fondi sono terminati, anche le imprese che ne avevano legittimamente bisogno rischiano di finire nel baratro.
Proprio la cassa in deroga è in questo momento l’emergenza più pressante. L’ultima iniezione di fondi è arrivata a fine marzo, con 260 milioni di euro concessi dal ministro Elsa Fornero dopo un lungo tiramolla. Soldi che serviranno a dare ossigeno solo per qualche settimana: alcune regioni come Liguria e Lombardia prevedono di esaurire le loro quote a fine maggio. «Molti lavoratori perderanno in ogni caso l’impiego. Ma senza cassa in deroga il contraccolpo potrebbe essere durissimo: sono a rischio 400 mila persone che oggi hanno un regolare contratto», sostiene Luigi Sbarra, segretario nazionale della Cisl. Una prospettiva inquietante, che può avere conseguenze drammatiche sull’occupazione. Già nel 2012 i licenziamenti - individuali e collettivi - hanno superato quota un milione; un record negativo che quest’anno potrebbe essere addirittura battuto.
Non passa così giorno senza un’invocazione di aiuto da parte delle Regioni, che hanno avuto un ruolo nella destinazione dei fondi. Anche perché le pressioni, per effetto dell’enorme ampliamento dei beneficiari, arrivano ormai da tutte le parti. A Grosseto sono sul piede di guerra persino gli impiegati dell’università locale, nove in cassa a zero ore, altri 15 a orario ridotto. Mentre a Palermo le ultime proteste sono giunte dai 1.800 addetti della Gesip, l’azienda del Comune che si occupa della pulizia di palazzi pubblici e spiagge: la cassa in deroga la vogliono anche loro, nonostante questo tipo di paracadute non sia, sulla carta, fruibile dai dipendenti degli enti pubblici.
Fatto sta che, per rispondere a tutte queste sollecitazioni, i governatori regionali alzano la voce. «A giugno finiranno i soldi e sarà allarme sociale», dice il veneto Luca Zaia. «Il governo ci ha lasciato con il cerino in mano: vien voglia di restituirgli le deleghe», minaccia il collega della Puglia, Nichi Vendola. E i sindacati non sono da meno: «Per la prima volta le istituzioni non sono in grado di proporre ai cittadini soluzioni alternative alla perdita del lavoro. Per rifinanziare la cassa in deroga serve subito un miliardo di euro», quantifica Susanna Camusso, segretario generale della Cgil.
La situazione non è però semplice. Pietro Garibaldi, un economista che insegna all’Università di Torino, osserva che la cassa in deroga «ha finito per finanziare anche imprese che non la meritavano». Ma che, azzerandola di botto, «si rischierebbe di creare un’altra ondata di persone senza lavoro, come quella degli esodati. È opportuno pensare a una riduzione progressiva».
Il fatto è che i soldi, finora, non sono arrivati non solo per motivi di bilancio, ma anche perché l’anno scorso il ministro Fornero aveva tentato di imprimere una svolta. Il difetto della cassa in deroga è di essere interamente a carico dello Stato: per usufruirne le imprese non versano un solo euro di contributi. Il tentativo è stato di creare dei fondi di solidarietà, alimentati con trattenute a carico di quelle piccole imprese che non beneficiano della cassa. Le novità stentano però a decollare, anche a causa del momento nerissimo. E, per lo stesso motivo, è fallito il progetto della Fornero di modificare la cassa tradizionale, cancellando quella chiamata straordinaria: un meccanismo di aiuti che non si attiva in presenza di una semplice crisi temporanea, ma quando serve una ristrutturazione profonda. E che, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe essere sostituito dalle nuove indennità di disoccupazione, sulla carta estese (per una quota minima) ad alcuni lavoratori a tempo determinato.
Le ragioni della riforma tentata dalla Fornero sono semplici: anche i conti della cassa tradizionale non tornano più. Nel triennio 2009-2011 l’Inps, che gestisce i contributi per il fondo cassa integrazione, ha ricevuto un flusso in entrata di 11,3 miliardi e ne ha usati 15,6 per sostenere i redditi e le pensioni dei lavoratori. Il saldo negativo è dunque di oltre 4 miliardi. Un numero che, stando alle prime indicazioni, si è ulteriormente appesantito l’anno scorso, quando il disavanzo fra entrate e spese è stato di altri 1,5 miliardi.
Anche se in passato non erano mancati casi di sforamento, è la prima volta che il bilancio fra entrate e uscite resta in rosso per quattro anni consecutivi. È certamente il frutto della recessione. Ma non basta: un risultato tanto negativo dipende anche dal fatto che molte fabbriche chiudono, facendo venire meno il gettito dei contributi assicurato un tempo. Un’emorragia che riflette un uso improprio di uno strumento pensato per assicurare la continuità occupazionale: «I conti non tornano perché la cassa non serve più per tenere legati i dipendenti all’azienda nei momenti difficili. Oggi viene per lo più usata per creare lunghi scivoli di esodo, che possono arrivare fino a sette anni», spiega Stefano Sacchi, economista della Statale di Milano. Che invita a seguire l’esempio della Germania: «Con l’esplodere della crisi, pure loro hanno prolungato la cassa integrazione di un anno. Poi però hanno combattuto la disoccupazione con percorsi di ricollocazione, accessibili a tutti i lavoratori. Da noi il sistema è distorto, perché la cassa è utilizzabile solo da alcuni dipendenti e per periodi infiniti. Cosa controproducente per gli stessi beneficiari, che dopo sette anni fuori dal mercato del lavoro faticano a rientrarci».
Dal canto suo, l’Inps osserva che per la cassa tradizionale non ci sono problemi immediati di finanziamento. Argomenta che i fondi contabilizzati fino al 2008, quando le aziende versavano più di quanto attingevano, garantiscono la tenuta del sistema. E che, se mai i quattrini non bastassero, toccherebbe allo Stato intervenire. In prospettiva, tuttavia, le perplessità non mancano. Il primo interrogativo è, appunto, il buco della cassa straordinaria. Il secondo riguarda, invece, il numero sempre più ampio di lavoratori a tempo o con partita Iva che non godono di alcuna copertura. «È uno dei grandi difetti della cassa integrazione, che protegge maggiormente i lavoratori delle medie e grandi imprese e, in particolare, quelli dell’industria. Ma che lascia scoperta una platea sempre più numerosa di persone», dice Carlo Dell’Aringa, uno dei più conosciuti economisti del lavoro italiani, entrato alla Camera dei Deputati alle ultime elezioni nelle file del Pd.
Se cambiare sistema ora, con la crisi che morde, sembra impossibile ai più, è però certo che una vera riforma non può tardare troppo. E che, per rimettere in sesto la cassa e restituirle la capacità di preservare i posti di lavoro, le novità dovranno essere profonde. Un esempio per tutti: l’Inps, che distribuisce ai lavoratori la cassa integrazione, avrebbe tutto l’interesse a trovare un nuovo impiego a chi lo sta perdendo. Questo compito, però, tocca ai centri provinciali per l’impiego. Dice Dell’Aringa: «Se chi mi deve trovare un lavoro avesse l’obiettivo di risparmiare i soldi che mi gira in sussidi, lo farebbe certamente più in fretta».