Arianna Giunti, l’Espresso 12/4/2013, 12 aprile 2013
VIETATO PUNIRE I POLIZIOTTI
Condannati per aver massacrato manifestanti inermi, per avere torturato detenuti, per aver spacciato droga, persino per aver ucciso. Eppure ancora in servizio, con il compito di far rispettare quelle stesse leggi che loro hanno infranto. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. Anche i poliziotti riconosciuti colpevoli dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Non è l’unico caso. "L’Espresso" ha esaminato una lunga serie di procedimenti contro uomini delle forze dell’ordine che non sono stati radiati, nonostante fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina, come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli unici dati disponibili permettono di capire l’importanza della questione: solo negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l’esattezza 105 sono stati indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque accertati. E, d’altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza per anni e anni. Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza non è in discussione. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata.
G8 SENZA CONSEGUENZE. Il blitz nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però l’interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella scuola una «macelleria messicana», oggi lavora al vertice della Direzione centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari.
PESTAGGIO CANCELLATO. Nel marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l’accesso alla questura. Oggi c’è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della lentezza della giustizia e dell’inerzia delle commissioni disciplinari. I reati di violenza privata, lesioni, falso e abuso d’ufficio sono stati prescritti in primo grado. Il tempo ha cancellato anche l’imputazione più grave di sequestro: lo ha stabilito la Corte d’appello, che si è pronunciata solo nello scorso gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni.
MORTE A TRIESTE. Ci sono agenti che però restano in servizio anche quando condannati in via definitiva per omicidio. Lo dimostra il caso di Riccardo Rasman, 34 anni. Figlio di istriani di lingua slava, l’uomo aveva subito feroci atti di nonnismo durante la leva militare, che avevano acuito la sua sindrome schizofrenica paranoide: era terrorizzato dalle divise. In una sera dell’ottobre 2006 Rasman ha festeggiato l’assunzione come netturbino lanciando petardi sul pianerottolo del condominio. Quando ha visto arrivare gli agenti si è rannicchiato sul letto, senza aprirgli. I poliziotti hanno sfondato la porta e si sono lanciati su di lui, un colosso pesante 120 chili e alto un metro e 85. I paramedici del 118 lo troveranno con le manette ai polsi, le mani dietro la schiena, fil di ferro alle caviglie, ferite e segni di «imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca». Proprio questo imbavagliamento, unito alla pressione con la quale gli agenti, per immobilizzarlo, gli premono con le ginocchia sul tronco, gli provoca una veloce asfissia e la morte. «Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo, aveva sangue che usciva dalle orecchie, dal naso, dalla bocca», ricorda oggi la sorella Giuliana Rasman.
Ci sono voluti sei anni per accertare la verità. La Cassazione ha condannato a sei mesi per omicidio colposo tre agenti della volante. Secondo i giudici, i poliziotti sapevano che Rasman era in cura in un centro psichiatrico e per questo avrebbero dovuto chiamare subito un’ambulanza. Oggi, liberi con la condizionale, vestono ancora la divisa. «Sono tutti in servizio, ci mancherebbe altro», conferma a "l’Espresso" il loro avvocato, Paolo Pacileo. La famiglia Rasman, attraverso il legale Claudio Defilippi, ha chiesto le scuse ufficiali del ministero dell’Interno. Mai arrivate.
ARRESTO LETALE. Ci sono decessi drammatici che si assomigliano. E fanno emergere tutta l’inadeguatezza delle forze dell’ordine nel gestire l’arresto di persone in stato di alterazione mentale: una situazione frequente quando bisogna avere a che fare con ubriachi, drogati o disabili psichici. Lo sottolinea la sentenza d’Appello che condanna per omicidio colposo nove agenti di Napoli che nel 2003 hanno provocato la morte per asfissia di Sandro Esposito, 26 anni. Esposito era un parà della Folgore, veterano delle missioni all’estero: durante una licenza, sotto l’effetto della cocaina sale su un capannone e urla. Intervengono diverse volanti e i poliziotti lo immobilizzano. Ma mentre tentano di caricarlo in auto, il parà scappa. Così lo colpiscono con calci e pugni alla testa, utilizzando anche un oggetto contundente, e lo stendono a terra sull’asfalto premendogli le ginocchia contro il petto fino a farlo morire asfissiato. In primo grado i poliziotti vengono condannati per omicidio preterintenzionale. In appello il reato si trasforma in omicidio colposo, e le parole dei giudici, pur riconoscendo la volontà di non uccidere, sono impietose verso l’intero corpo di polizia: «Ci troviamo di fronte a un difetto di addestramento, non risulta infatti che il ministero dell’Interno abbia mai compilato, come invece è avvenuto con il Dipartimento della Giustizia negli Stati Uniti, un protocollo per il trattamento dei soggetti in stato di delirio cocainico». Due dei nove agenti sono stati espulsi dalla polizia, gli altri non hanno avuto conseguenze. Per sei di loro, la pena a 4 anni di carcere è stata ridotta dalla Cassazione a un anno e sei mesi, con immediata libertà condizionale. Per un altro è scattata la prescrizione. All’epoca dei fatti vennero sospesi per un solo mese, poi sono tornati in servizio e ancora oggi indossano l’uniforme. I genitori del ragazzo, assistiti dall’avvocato Monica Mandico, continuano ad aspettare il risarcimento stabilito dai giudici. Finora dal ministero dell’Interno hanno ricevuto solo il conto da pagare per la rottura del finestrino di una delle volanti su cui fu caricato a forza loro figlio.
TORTURATORI AD ASTI. Un verdetto paradossale nel gennaio 2012 ha salvato dalla condanna quattro guardie carcerarie del penitenziario di Asti. Erano accusate di aver trattato quattro detenuti come prigionieri di un lager, picchiandoli, privandoli di cibo e acqua, lasciandoli nudi per giorni interi in pieno inverno in celle senza vetri e finestre, arrivando persino a strappare di netto il codino di capelli a uno di loro. I fatti risalgono al 2004, ma sono emersi solo sette anni dopo. Una "piccola Abu Ghraib italiana", come è stata definita durante il processo: «Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera», raccontano a verbale i detenuti «ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Io mi chiudevo come un riccio, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte». I giudici del Tribunale di Asti ritengono che si tratti di tortura, un reato che non esiste nel nostro codice penale. E quindi sono state inflitte solo pene esigue, per abuso di autorità e lesioni personali: oggi sono già prescritte. Due degli agenti, responsabili dei fatti più gravi, sono stati radiati lo scorso gennaio. Per gli altri due sono arrivate sospensioni di 4 e 6 mesi. Dopodiché torneranno in servizio.
A GUARDIA DI CUCCHI. La verità processuale è ancora tutta da scrivere nella vicenda di Stefano Cucchi, la morte di un geometra romano di 31 anni diventata simbolo dell’abuso di potere. Il 15 ottobre 2009 Stefano viene sorpreso con alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici e recluso a Regina Coeli. Quel giorno, hanno detto i suoi familiari, non aveva alcun trauma fisico e pesava solo 43 chili. Già durante il processo ha difficoltà a camminare, gli occhi sono cerchiati da lividi neri e ha lesioni ovunque. Dopo la condanna per direttissima torna in carcere, le sue condizioni peggiorano e viene ricoverato. Il 22 ottobre 2009 muore in ospedale. Da allora comincia una sfida a colpi di referti, perizie, ipotesi investigative. «Ci devono ancora spiegare chi ha provocato a Stefano quelle lesioni alle vertebre, al torace, alla schiena, alla mandibola. Vogliono farci credere che se l’è fatte da solo, cadendo. E quante volte sarebbe caduto?», tuona l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, lo stesso che assiste anche la mamma di Federico Aldrovandi.
Tra gli imputati in attesa della sentenza di primo grado ci sono anche tre guardie carcerarie accusate di aver provocato le lesioni. Per loro non risultano esserci state sospensioni e sono attualmente in servizio. «Ma non più a diretto contatto con i detenuti», precisa il loro avvocato Diego Perugini.
RECIDIVO. L’assenza di regole certe fa cadere anche la paura delle sanzioni. E ci sono casi in cui i poliziotti, non sospesi dopo la condanna, tornano a infrangere la legge. A Milano nel giugno 2007 Luciano Pasqualetti con due colleghi, Massimiliano De Cesco e Andrea Chicarella, arresta un uomo peruviano accusato di rissa aggravata. Lo straniero viene portato in un bagno della Questura e massacrato di botte. Il giorno dopo il pestaggio si ripete, stavolta sotto l’obiettivo di una telecamera: a colpirlo è De Cesco, Chicarella lo tiene fermo, mentre Pasqualetti guarda e non interviene. Qualche mese prima De Cesco era stato protagonista di un caso finito su tutti i giornali: aveva arrestato con modi violenti un altro immigrato e il gip Clementina Forleo, testimone casuale, era intervenuta per bloccarlo. Dopo il pestaggio del peruviano, Pasqualetti patteggia otto mesi ma resta in servizio. L’unico provvedimento è il trasferimento alla Questura di Genova. Dove lo arrestano di nuovo, lo scorso gennaio, per aver regalato informazioni preziose ad alcuni pregiudicati grazie alla possibilità di accedere alla banca dati del ministero. Dalle indagini emerge inoltre che il poliziotto spacciava cocaina.
DROGA DI SCORTA. Il dilagare degli stupefacenti nella società italiana riguarda anche le caserme delle forze dell’ordine. Nel 2009 quattro agenti del Servizio Scorte di Milano sono stati condannati in Cassazione per aver rivenduto la droga che loro stessi sequestravano agli spacciatori. Dopo la sospensione provvisoria, tre di loro sono stati reintegrati, anche se in un altro reparto. Un capitolo a parte meritano invece i consumatori in divisa. I poliziotti sotto l’effetto di cocaina non sono un caso raro: secondo il regolamento vengono sospesi da sei mesi a un anno. Poi però c’è il rientro automatico in servizio, dopo un unico test antidroga che non viene più ripetuto. Tanto che spesso - dalla stessa polizia - viene sollevata la necessità di introdurre analisi periodiche di controllo.
IL GENERALE E LA POLTRONA . Molte volte per i carabinieri l’applicazione del codice militare permette provvedimenti interni molto più rapidi e risolutivi: come nel caso dei marescialli arrestati per i ricatti emersi con lo scandalo dell’allora governatore del Lazio Piero Marrazzo, tutti immeditatamente sospesi per cinque anni. Eppure il caso più discusso di uomini rimasti in divisa nonostante accuse pesantissime resta quello del generale Giampaolo Ganzer. Un ufficiale dal curriculum eccezionale, dalla lotta antiterrorismo con Carlo Alberto Dalla Chiesa allo smantellamento della mafia del Brenta, fino alla guida del Ros. Poi l’incriminazione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso per la gestione di un’operazione coperta. Nel 2010 i giudici di Brescia lo hanno condannato a 14 anni definendolo «un traditore per smisurata ambizione». La sentenza ha scosso i vertici dell’Arma, ma Ganzer è rimasto al suo posto fino al giorno della pensione, nello scorso luglio. E questo nonostante il regolamento militare preveda la sospensione in caso di condanna non definitiva per peculato, uno dei reati contestati al generale.
STUPRO IN CASERMA. A volte, poi, anche quando la decisione dell’autorità sembra irrevocabile, è il Tar che rimette tutto in discussione. Come è successo a uno dei carabinieri accusati dello stupro di una donna nella caserma del Quadraro a Roma, arrestata nel 2011 per un furto. La donna denuncia di essere stata violentata nella camera di sicurezza. «Mi hanno offerto un panino, mi hanno fatta bere, poi sono cominciate le violenze», mette a verbale.
L’Arma ha immediatamente destituito i tre militari coinvolti. Ma uno di loro ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo: cacciandolo in quel modo - questa la sua tesi - il ministero si sarebbe macchiato di eccesso di potere senza dare al carabiniere la possibilità di difendersi dall’accusa. I giudici gli hanno dato ragione ed è stato reintegrato. Ora sarà necessario un nuovo procedimento disciplinare. A dimostrazione di quanto sia urgente varare regole certe ed efficaci.