Ugo Bertone, Libero 9/4/2013, 9 aprile 2013
SCENDE LO SPREAD MA NON I TASSI PER LE AZIENDE
Le imprese italiane pagano il prezzo più alto per l’aumento dello spread. A ogni incremento di 100 punti della forbice tra i Btp e Bund, corrisponde un maggio costo attorno al 25% per la provvista da parte del sistema bancario. Questo maggiore importo si trasmette, ovviamente accresciuto, con grande rapidità ai clienti: nel giro di tre mesi il 30-40% dell’aumento si scarica sulle imprese, salvo poi salire al 50-60 nei sei mesi. Ma il salasso non stato è eguale per tutti: il prezzo più alto lo hanno pagato le piccole e medie imprese, cui è stato tra l’altro tagliato il50% circa del credito disponibile. Come è già successo in occasioni precedenti. Ma stavolta c’è una differenza: il credit crunch che ha caratterizzato la stagione di Lehman Brothers era frutto della stretta da parte delle banche, che non erogavano nuova finanza. Oggi, al contrario, è bruscamente scesa la domanda da parte delle imprese, stremate.
A misurare in maniera scientifica, nei vari passaggi, il dramma che strangola il sistema produttivo, è uno studio di Edda Zoli, senior economist del Fondo Monetario, pubblicato presso lo stesso Fmi meno di una settimana fa. Un’analisi che va letta con grande attenzione, per più ragioni. Primo, perché non solo dimostra ma offre una dimensione quantitativa del legame che corre tra l’andamento dello spread e il costo della provvista bancaria. Secondo, perché misura la rapidità di trasmissione del peggioramento delle condizioni praticate alla clientela delle imprese, le prime vittime della stretta del credito. Ma dalla lettura emerge un altro aspetto, ancor più inquietante: tanto veloce è la trasmissione della febbre, quando sale lo spread, tanto è più difficile e lento il fenomeno inverso. Un po’ quello che capita con il prezzo della benzina rispetto al costo del petrolio. Ma il paragone, in realtà, è forzato. In questo caso la responsabilità non è tanto del petroliere di turno (cioè la banca) , o dello Stato esattore, ma originato da una perversa catena di Sant’Antonio di fronte a cui l’Italia è in buona parte impotente. Anche perché, come dimostra l’esperienza di questi mesi, non è sufficiente che Mario Draghi riesca, come è riuscito, a mettere sotto controllo lo spread con effetti benefici per il costo del finanziamento di Bot e Btp.
Perché capita questo? L’Italia, tanto per cominciare, paga il prezzo della dipendenza dai capitali stranieri, in grado di condizionare e amplificare gli andamenti dello spread ma ancor di più dei cds (i credit default swap) che misurano l’affidabilità degli istituti. E questo si traduce in una maggior volatilità e in un rischio più alto che va pagato. Secondo, le banche, proprio per migliorare la propria credibilità internazionale devono destinare buona parte delle risorse a far pulizia di bilancio e rafforzare il patrimonio. E il denaro che resta costa più caro. Insomma, inutile lamentarsi con il sistema del credito, salvo chiedere che l’azione non si fermi al magazzino degli impieghi ma tocchi i tanti sprechi e le commissioni (o tangenti?) incassati in questi anni con operazioni tipo Mps. Ma è inutile intestardirsi nella guerra dei poveri: anche in caso di calo degli spread, come ha dimostrato l’esperienza di questi mesi, le banche italiane non sembrano in grado di trasferire il minor costo alle imprese affidate. È un’amara realtà di cui Draghi ha preso atto da mesi. Al punto da sottolineare, dopo l’ultima riunione della Bce, che sta pensando a misure «non standard» per attivare il meccanismo di trasmissione del credito alle imprese, anche quelle piccole e medie. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto per l’ombra della Bundesbank, la prima azionista della Bce, che ha già preannunciato il suo «nein» a iniziativa in materia. Che margini di azione può avere Draghi? «Il presidente ha a disposizione tre possibilità » spiega sul Financial Times Wolfgang Münchau. Può estendere gli acquisti ad altre categorie di titoli più rischiosi e di minor qualità, offrendo più ossigeno alle banche. Oppure può battersi per garantire più fondi alla Bei che a sua volta può finanziare piccole e medie imprese. Ma entrambe le soluzioni sono lente, farraginose e dall’esito incerto.
Infine, Draghi può rompere gli indugi e, in nome della difesa dell’euro può mettere in moto acquisti da parte della Bce di obbligazioni societarie o di covered bond. Una mossa difficile soprattutto perché richiede una maggioranza in Bce capace di metter sotto la Bundesbank. Non è facile, ma non sarebbe impossibile se ci fosse la volontà politica di salvare le imprese. A Roma, prima che a Berlino.