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 2013  aprile 11 Giovedì calendario

L’AFGHANISTAN AFRICANO


Tre piccole dita di una mano bruciata dondolano fra gli sterpi del deserto incandescente. Più in là nella sabbia un ciuffo di capelli. Accanto un occhio come una biglia viva. È quello che rimane di un bambino kamikaze di 13 anni che la notte del 22 marzo si è fatto esplodere davanti al check-point alle porte di Timbuctù, città leggenda nel cuore del Sahara maliano. A pochi metri i brandelli neri della 4x4 che il minikamikaze guidava.

Ci sono volute una notte e una mattina intere di combattimenti per respingere una trentina di jihadisti di Alqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico) che hanno cercato di riprendere l’aeroporto controllato dalle forze francesi. L’alba ha visto sei morti fra i terroristi e uno nell’armata maliana. Come Kidal e Gao, grandi città del nord del Mali, anche Timbuctù rischia di diventare un Afghanistan africano. In realtà gli uomini della più grande new company del terrorismo jihadista africano (i tuareg del Movimento di liberazione dell’Azawad, gli algerini di Ansar Addin e quelli del Mujao, il Movimento per l’unicità della jihad), che l’avevano occupate militarmente il 28 gennaio 2012, sono stati cacciati dai bombardamenti francesi solamente dal cuore delle città. Ma continuano a controllare il territorio e stanno appostati nei villaggi a pochi chilometri dai grandi centri.
Ombre rabbiose, forti dell’arsenale più ricco dell’Africa, quello saccheggiato in Libia dopo la morte di Muammar Gheddafi, i folli dell’islam non vogliono lasciare quella che considerano la loro terra. E sparano e ammazzano. Una bomba kamikaze a Gao, due a Kidal. E questa, inaspettata, nella capitale che accende il panico in un alberghetto senza luce né acqua, dove un ex ambasciatore americano, che vorrebbe costruire una scuola, e un drappello di giornalisti stranieri (sette svedesi, due italiani, lo stringer e io, più un francese) fiutano la trappola. «Scappate subito nella caserma della milizia maliana» ci ordina fra gli spari il capitano francese al telefono «poi verremo noi a prendervi con un elicottero». Scappiamo. Nicolas, il cameraman di Neully, è pallido: «E se ci prendono proprio sulla strada? Non vorrei andare a ingrossare il gruppo di ostaggi miei concittadini». Ho vivi in mente i racconti di Robert Fowler, viceministro della Difesa canadese rimasto ostaggio dei mujahedin per quattro mesi: botte, scorpioni, viaggi di 30 ore, sete soffocante, cibo infetto. E ogni attimo la paura di essere sgozzato.
Gli altri vanno. Non ho scelta, vado anch’io. Partiamo in carovana, dopo poco ecco i posti di blocco con i mitra dei soldati dell’armata maliana. Sono nervosi, ci puntano le armi addosso. Urliamo che siamo reporter loro urlano di scendere a piedi, mani in alto. Cammino piano dentro l’alba di nebbia e oro di questa città magica. Dribblo la moschea con le mura rosa e il tetto che tocca il cielo che ha fatto sognare i grandi esploratori dell’800. Entriamo nella caserma lentamente. Uno per uno, come se questo rifugio diventasse la nostra prigione.
Finalmente arrivati al quartier generale, i capi militari ci accolgono ospitali in mezzo a carri armati e kalashnikov. Ci fanno stendere su tappeti sulla sabbia. «Vi riprenderanno Timbuctù, vedrete, e poi Bamako, e tra due anni tutto il nord dell’Africa: dal Mali alla Mauritania, dalla Libia all’Algeria, fino al Marocco»: l’ex ambasciatore John Price li travolge con le sue profezie. «La verità è che qui nel Mali i francesi e i ciadiani che vi aiutano saranno sostituiti dal 1° di luglio da truppe molto fragili, quelle africane della missione internazionale. E allora che Dio vi protegga» insiste, mentre sdraiata scopro che il calore mi ha sciolto le suole delle scarpe.

L’andirivieni di carri leggeri con a bordo mitragliatrici da 12,7 mm e la furia di soldati maliani non consola. Le notizie schizzano impazzite. Sette morti per un aereo francese che ha sparato per sbaglio su un convoglio maliano. Gli islamisti che avrebbero scelto questa caserma come obiettivo finale. L’aereo dell’Onu che dovrebbe portarci indietro domani e che non arriverà mai perché l’aeroporto è stato il cuore dei combattimenti. Quel che è peggio, a Bamako nessuno risponde alla sede del Programma alimentare mondiale. Siamo isolati e alcuni pensano che i terroristi del Sahara ritenteranno l’attacco.
La paura è più intelligente del coraggio, diceva Ryszard Kapuschinski. I telefonini palpitano, i cuori pure. Chi col panico negli occhi cerca notizie sul computer, chi parla pateticamente con i figli (io), chi con il giornale. «Quest’attacco è una reazione alle forti perdite delle milizie salafite nel massiccio Adrar degli Ifoghas, roccaforte dei jihadisti, al confine con l’Algeria» detta a braccio al suo giornale lo svedese Stefan. Aggiunge che fra gli altri «è tornato alla polvere del Sahara» un uomo il cui solo accenno fa tremare. È Abou Zeid, emiro algerino del sud, belva di Aqmi, capace di negare acqua e medicine agli ostaggi che ha fatto rapire, compresi cinque francesi. La storia di questo guerriero islamista è un film horror. Stefan continua il suo racconto: «Lo scorso 2 marzo i ciadiani organizzano un’imboscata ai salafiti nella valle dell’Attetai. Ma, sorpresa, fra loro c’è la primula rossa Aba Zeid. Lui e i suoi si battono per ore. I miliziani del Ciad sono più forti e più rabbiosi per la perdita di 93 uomini. Alla fine, piuttosto che farsi prendere, l’emiro si tira una palla nel cranio» continua Stefan.
«E gli ostaggi?» chiede l’ex ambasciatore mentre arrivano brandelli di capra come colazione. Il capitano maliano Couloubali spiega che sono proprio i rapiti quelli che i soldati francesi cercano disperatamente in quelle gole. Li guidano i combattenti tuareg del Mnla, che dopo aver facilitato l’invasione ai jihadisti un anno fa si sono separati da loro (i tuareg vogliono l’indipendenza dell’Azawad, i folli dell’Islam solo la sharia) e oggi flirtano col governo provvisorio di Diouncunda Traorè e con le truppe liberatrici. Uno sparo rompe quel racconto. «Niente paura, è solo un tiro di riconoscimento» spiega una montagna nera che scende dal carro armato con tuta mimetica e occhiali a specchio. Faccio finta di capire, ma la paura non mi impedisce di seguire il dibattito sui prigionieri: «Due fra i francesi rapiti li nasconde invece l’emiro Mokhtar Belmokhtar. Veterano della jihad in Afghanistan, dove ha perso un occhio, ha lasciato l’Algeria per combattere nel Sahel. Pare che anche lui sia morto nelle valli di Attetai». Se è vero, che fine faranno gli ostaggi?

Come evocata, arriva la notizia «Hanno ammazzato un ostaggio francese. Sono feroci e non hanno pietà». La paura vince. Io in questo posto non ci rimango un attimo di più. In Afghanistan, come in Pakistan e dovunque, le caserme diventano l’obiettivo favorito dei kamikaze. Il colonnello mi dà ragione. «Prima di uscire, le interessa vedere i nostri prigionieri?» chiede per consolarmi. La stanza carcere è a pochi metri. Lì sette uomini che più neri non si può stanno stipati in un odore di orina indimenticabile. Il primo è stato trovato con un malloppo di banconote false, uno degli sport favoriti dei jihadisti sposati col narcotraffico, l’altro che mi guata come una preda succulenta passava notizie a quelli di Alqmi con un telefono satellitare. Li giudicheranno a Bamako dopo gli interrogatori. Ma quanti sono i complici dei talebani nascosti in città?
Usciamo. Passo ancora davanti al centro Ahmed Baba, dove solo ieri ho scoperto brandelli carbonizzati dei manoscritti sacri dati alle fiamme da questi soldati della distruzione. Penso anche alle donne violentate in città, ai loro mariti con le mani tagliate per un nonnulla. Al terrore del milione di profughi che riempiono i campi del sud. La mattina dopo l’aereo dell’Onu arriva puntuale. Dalle finestre dell’aeroporto semidistrutto, che ci ha nascosto per ore, lo vediamo bucare il deserto come un uccello bianco. Prima di salire, l’ultima esplosione: è quella che ha fatto saltare in aria i cadaveri dei salafiti uccisi dai francesi. Hanno combattuto fasciati da cinture esplosive che ora i soldati fanno brillare.