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 2013  aprile 11 Giovedì calendario

QUESTO È IL MIO PIETRO MASO


«Il male ero io». L’uomo scandisce piano le parole, con gli occhi che trattengono i miei, perché possa capire quanto è profonda la linea che spezza ieri da oggi. Quanto sottile il confine che scosta il bene dal male. Afferro il respiro. È un silenzio denso. Poi ricomincia a parlare. «È qui. Mio padre è sul ballatoio. Un altro passo e devo colpire. Alzo la spranga sopra la testa con una delicatezza insospettabile. Non muovo neppure l’aria. Arriva l’ultimo passo. Poi un lampo».
Inizia così il racconto di quella notte, di quel maledetto 17 aprile 1991 in cui a Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, Pietro Maso aiutato da tre amici uccide i suoi genitori. Volevano intascare l’eredità. Volevano fare la bella vita. Pietro è un fiume senz’argini. Io raccolgo tutto. Senza interruzioni. E ogni passo è un salto nell’abisso che si spalanca sotto di noi. Ora Pietro si ferma. Non ce la fa più. Il suo cuore si inceppa. Si nasconde il viso tra le mani. Ci sono voluti due anni per arrivare a questo punto della storia, due anni perché io trovassi il coraggio di fargli quella domanda. E lui di tornare ad abitare nell’uomo che era stato.

Ho conosciuto Maso una sera d’ottobre del 2008. Io ero andata a caccia della mia preda. Lui, «il mostro», aveva appena ottenuto la semilibertà. Un inseguimento sotto casa sua, sotto la pioggia. Quante volte era già accaduto. Ma ci sono ostinazioni che è bene lasciare che si ripetano perché se ne possa cogliere il senso, fino in fondo. Nell’ostinazione di uno scoop giornalistico, quel giorno si è inserito un fattore di disturbo, che ha cambiato il corso della nostra storia. La pietas: è arrivata come rugiada in un giorno di pioggia. E ho imparato che la vita ha in sé qualcosa di tragico, di comico e di misterioso che muove le cose a nostra insaputa.
Il libro è un incontro. Le parole ci si arrampicano. E noi pure. Quattro anni di amicizia in cui sono accadute tante cose, dentro e fuori le nostre esistenze. Il libro è un biglietto di andata e ritorno per l’inferno.
Un tentativo di restituire la verità al suo senso. Diceva il filosofo Cartesio che «per ogni cosa c’è un’unica verità, per cui chiunque la trovi, ne sa quanto è possibile saperne».

In tanti mi chiedono: ma com’è oggi Pietro Maso? A tutti rispondo con un paradosso: non sarebbe quello che è se non fosse quello che è stato. Perché il male assoluto in cui è sprofondato, sporcandosi le mani con il sangue di sua madre e di suo padre, lo ha costretto con forza uguale ma contraria a scavare verso il bene. Pietro oggi ha 42 anni, ha pagato il suo debito con la giustizia. E chiede di tornare alla vita. Ventidue anni: sono niente e sono tutto per chi è entrato in carcere quando ne aveva soltanto 19. Sono più di quanti ne ha vissuti fuori. Dentro, Maso è diventato un uomo. L’uomo che io conosco e che tra pochi giorni (lunedì 15 aprile, ndr) sarà di nuovo libero. Ma che libero, in fondo, non lo sarà mai. La strada che ha imboccato, quella del pentimento, della conversione, della preghiera, non era facile.

A corrergli al fianco, per tutto questo tempo, c’è stato un uomo di chiesa, don Guido Todeschini, direttore di Telepace. Maggio 1991. Pietro è rinchiuso da un mese nel carcere di Verona. Lo sente parlare alla radio. Una voce pacata sta dicendo: «Ora dobbiamo chiederci che fine faranno questi ragazzi e soprattutto Pietro Maso, che dei tre è il più isolato, il più odiato. Che facciamo? Lo abbandoniamo, lo seppelliamo vivo come meriterebbe, oppure gli tendiamo la mano e cerchiamo di recuperarlo?». Pietro prende carta e penna e gli scrive una lunga lettera. S’incontreranno sei mesi dopo. Non si lasceranno più. Poi è arrivata la mistica Natuzza Evolo. Ha portato acqua fresca lungo il cammino.
Pietro a volte sorride, di un sorriso pieno. A volte di un sorriso a metà. L’ho visto anche piangere. Ma lui non vuole che lo dica. All’inizio per me non è stato facile. Quando i primi tempi ero seduta con lui a chiacchierare, a mangiare, non riuscivo a cacciare via dalla testa quello che aveva fatto. Anche se davanti a me c’era una persona che non aveva più nulla dell’assassino che era stato.
Più di una volte mi sono chiesta se fosse giusto quello che stavo facendo. Alcuni amici non hanno approvato. Altri hanno cambiato idea. Una persona a me molto cara, qualche giorno fa, mi ha detto: «Come hai fatto a scrivere un libro con uno che ha ucciso i genitori?». Gli ho risposto: «Ho scritto un libro con un uomo». Si chiama Pietro. Questo sento. E non sento di essere migliore degli altri. Perché, come dice il regista Paolo Sorrentino, «non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini. Il giorno che accadrà sarà un giorno sbagliato».