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 2013  febbraio 23 Sabato calendario

TORNA LA «VITA SEGRETA DI GABRIELE D’ANNUNZIO»

«Gabriele d’Annunzio pesa kg. 75; è alto un metro e cm. 64; misura, come giro di torace, cm. 90; e come giro di testa cm. 54». Comincia con la minuziosa descrizione fisica del Vate il libro di memorie che Tom Antongini scrisse nel 1934 per raccontarne la biografia. Il libro, intitolato «Vita segreta di Gabriele d’Annunzio» e pubblicato nel 1938 da Mondadori - lo stesso anno in cui d’Annunzio morì - ebbe un successo immediato che si protrasse con varie ristampe, fino all’inizio del secondo dopoguerra, quando i mutati interessi culturali lo fecero scivolare nella dimenticanza. Ora viene riscoperto dall’editore Lantana che lo manda in libreria il prossimo 12 marzo, nel centocinquantesimo anniversario della nascita del poeta. Riscoperta che riguarda non solo il testo, ma anche l’autore. Tom Antongini, che il dizionario Treccani riporta col nome di Tommaso, è anche lui un personaggio che merita di essere rievocato. E non solo perché questa biografia di d’Annunzio è tra le più godibili che siano mai state scritte. Nato a Premeno in provincia di Novara, Tommaso aveva conosciuto il Vate a Firenze nel 1897, mentre studiava giurisprudenza. Nel 1905 d’Annunzio, lamentandosi che Treves non lo pagava abbastanza, convinse Antongini a fondare una casa editrice, con la promessa che gli avrebbe ceduto tutte le opere future. Ma, dopo essersi fatto elargire un bel pò di anticipi, non consegnò un bel niente. Tommaso fallì, scappò in America e diventò Tom. Chiunque altro avrebbe rotto i rapporti con d’Annunzio. Lui no. Nel 1910 si incontrarono di nuovo a Parigi, dove Tom aveva fondato il "Journal des Dame et des Modes" e rinsaldarono un’amicizia destinata a durare fino alla morte del poeta. Per oltre trent’anni Antongini fu il suo insostituibile segretario, condivise con lui i momenti di gloria e di disgrazia, trascrisse a macchina ogni sua pagina. Per questo, quando decise di raccontare «la vera esistenza di uno dei più gradi artisti dell’età presente», poteva attingere non solo alla vita in comune, ma «a più di settecento lettere autografe da lui a me dirette» e agli «appunti numerosissimi da me presi durante il corso della mia vita al suo fianco». Nonostante la lunga intimità, Antongini si sforza di non essere agiografico e in parte ci riesce. Imperdibile il primo capitolo, interamente dedicato alla descrizione del corpo di d’Annunzio, con il rammarico di averlo sorpreso «in tenuta adamitica», non più di tre o quattro volte, perché «il grande Poeta e Condottiero è sotto questo punto di vista riservato e incredibilmente pudico».Dopo avergli preso le misure - e lo faceva spesso per trasmetterle al sarto - Tom passa a raccontarne la pelle, «liscia e bianca, di un biancore quasi cereo». Il corpo agile, a sessant’anni, come quello di un uomo di trenta. Il piede piccolissimo, la vita stretta, il ventre piatto, le mani piccole, fini e ben modellate. Le unghie con macchioline bianche, di cui dava la colpa, secondo una credenza popolare, alle bugie che raccontava alle amanti. Il cranio «politissimo», in cui sono ben visibili le suture ossee, di cui d’Annunzio andava fiero, tanto da elencarle, senza ombra di ironia, tra le quattro bellezze del mondo insieme a «un levriero o un cavallo da corsa ben allevati, le gambe di Ida Rubinstein, il corpo di un vero ardito reduce dai guadi del Piave». Si va avanti per una trentina di pagine, con l’elenco delle cicatrici, il colore degli occhi e la miopia, l’infelice dentatura e il naso largo, i baffi radi e la voce limpida. Vi sono descritte le numerose portate dei pasti che d’Annunzio ingurgitava con voracità, nonostante in fatto di vivande fosse «schifiltosissimo». Debolezza di cui approfittavano i camerati. Come Riccardo Sonzogno (futuro editore) che al bettolino della caserma si ficcava in bocca una mosca e fingeva di masticarla, per far scappare d’Annunzio e mangiarsi anche la sua porzione. Vi sono elencate le malattie, la sua passione per le medicine, in particolare per «le iniezioni rinforzanti». Lo vediamo che «dorme abitualmente sul fianco destro, raramente sogna». Lo osserviamo scegliere i vestiti dal suo immenso guardaroba, consumare «in media mezzo litro di Eau de Coty al giorno, infilare alle dita i tre anelli con smeraldi cabochon e fissare sulla camicia le due piccole perle, una bianca e una nera (false)».Nei capitoli successivi si passa alle passeggiate romane, agli incontri di d’Annunzio con Franz Liszt durante i concerti a Palazzo Doria Pamphilj, ai suoi rapporti con i colleghi, al disprezzo per Fogazzaro («le sue opere sono paragonabili a delle tazze di caffè e latte prese in sacrestia»), all’ammirazione per i poeti romaneschi Belli, Pascarella e Trilussa. Quest’ultimo ebbe anche l’occasione di collaborare con d’Annunzio nella redazione di uno dei tanti pensieri che le ragazze romantiche (di preferenza quelle brutte) raccolgono per i loro calamitosissimi album d’autografi. D’Annunzio sempre compiacente aveva scritto «La più gran gioia è sempre all’altra riva». E Trilussa, cui fu presentato l’album immediatamente dopo, v’aggiunse sotto: «Fortunato quell’omo che ci arriva!».
Lauretta Colonnelli