Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 16/02/2013, 16 febbraio 2013
SINTASSI DI UNA PERSECUZINE
Una delle circolari più grottesche, tra le tante vergognose che furono diramate contro gli ebrei dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, è quella del ministero degli Interni, in data 4 marzo 1941: «Per gli adempimenti di competenza si comunica che d’ordine superiore è stato disposto che siano radiati i nominativi degli ebrei e delle ditte ebraiche dagli elenchi telefonici e dalle altre pubblicazioni analoghe». Il documento è esposto nella mostra «Don Pietro Pappagallo. La persecuzione degli ebrei a Roma 1938-1945», aperta fino al 23 febbraio nella Sala Alessandrina del Palazzo della Sapienza (Corso del Rinascimento 40, tel. 06.68190895). Il percorso occupa uno spazio brevissimo: sette bacheche al centro della sala, con dentro fogli ingialliti conservati presso l’Archivio di Stato diretto da Eugenio Lo Sardo ed esposti per la prima volta al pubblico a cura di Carla Cerati. Ma il tempo della visita può richiedere ore, perché è difficile staccarsi da quei telegrammi che di giorno in giorno ribadivano in modo capillare i divieti, con l’intento di annullare il diritto degli ebrei ad essere liberi cittadini. Vietato avere una licenza per esercitare il mestiere di fotografo o di tipografo, partecipare alle pubbliche aste, raccogliere stracci di lana, entrare nelle biblioteche, frequentare scuole riservate alla «razza ariana», partecipare alle associazione per la protezione degli animali, frequentare il Conservatorio e suonare nei concerti. C’è la lettera di un gerarca amante della musica al prefetto di Roma per chiedere che il compositore ebreo Donato Di Veroli, già radiato dal Conservatorio e precettato per lo sterramento del Tevere, venga esonerato dai lavori. In data 18 giugno 1942. Il 10 luglio 1943 Di Veroli muore suicida. Aveva vent’anni. Ci sono le lettere scritte da altri ragazzi su fogli strappati da un quaderno. Ragazzi internati nei campi di concentramento, increduli e spaventati e umiliati (la richiesta più frequente è un ricambio di biancheria intima). Si rivive una storia d’amore nelle lettere che Giulio Levi, 21 anni ebreo, invia dai campi di concentramento all’amatissima Tosca Cioni, un po’ più grande, ariana. Lui morì ad Auschwitz, lei fu accusata nel ’45 di avere scritto la lettera anonima con cui fu denunciato e fatto arrestare. Tosca venne poi assolta alla fine del processo. Ci sono gli atti di un altro processo famoso, quello a Gino Crescentini, spia fascista che fece arrestare e fucilare alle Fosse Ardeatine don Pietro Pappagallo, il sacerdote impersonato da Aldo Fabrizi in «Roma città aperta» di Rossellini. La vicenda è nota ma tocca il cuore leggerne il racconto documentato nel manoscritto della domestica del prete, Teresa Nalli. Nell’ultima bacheca, ancora un processo: quello a Emma Domistz, ungherese, abitante in via Nazionale, che fece arrestare ottanta ebrei saliti sulla terrazza del palazzo di fronte per sfuggire a un rastrellamento. Li vide dalla finestra e mandò la domestica dalla polizia, con un biglietto scritto in tedesco. Negli atti ci sono le foto della terrazza. Piccola e stretta. Vuota. Ma sembra di rivedere come fantasmi quei corpi stretti l’uno all’altro.
Lauretta Colonnelli