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 2013  aprile 12 Venerdì calendario

LA RIVISTA PIÙ BELLA DEL MONDO? LA FANNO IN PERÙ


LIMA. Tema: le coppie. Svolgimento: un tuffatore olimpionico sta con una donna di ventisei anni più grande di lui, che ha conosciuto quando ancora andava alle elementari. A Etiqueta Negra preferiscono le eccezioni alle regole. Non lo strano-ma-vero, ma la via meno battuta per arrivare alla destinazione giornalistica che si sono prefissati. L’ultimo numero, ad esempio, è dedicato all’amore. E nel mensile meglio scritto al mondo, il New Yorker latinoamericano, è in atto il consueto, furibondo e infine allegro casting in cerca di storie rigorosamente non banali. La vicedirettrice Elda Cantù, una trentenne messicana che ha già insegnato per un decennio relazioni internazionali all’università, scuote la testa: «Se anche facessimo un solo numero all’anno troveremmo comunque il modo di essere in ritardo». Il perfezionismo è il problema, non la lentezza. Qui ogni articolo è figlio in parti quasi uguali di chi lo scrive e di chi lo «passa». Ha i cromosomi tanto del cronista che l’ha messo al mondo quanto del deskista, l’editor che l’ha messo in pagina. Tre-quattro revisioni, suggerimenti, correzioni sono la norma. In un valzer che può essere sfibrante, ma che alla fine garantisce al lettore una qualità uniformemente altissima.
La redazione è camera e cucina a San Isidro, quartiere pieno di bei negozi. Nella sala più grande, si fa per dire, Cantù sta a capotavola dell’unica lunga scrivania. Alla sua destra siede Diego Salazar, in teoria responsabile della rara narrativa ospitata, in pratica caporedattore. A sinistra un ingegnere pentito, in età da Interrail, e davanti a lui un’altra redattrice. «L’unica che ha studiato da giornalista» fa notare la capa. Nella stanzetta confinante ci sta il grafico che ogni mese impagina le quasi cento pagine della «rivista per distratti», come recita il sottotitolo. Un omaggio alla definizione del poeta Octavio Paz: «Distrazione vuol dire attrazione per il rovescio di questo mondo». Un’assonanza con quello che Pirandello diceva dell’umorismo come «avvertimento del contrario», un altro ingrediente su cui a Etiqueta Negra non lesinano. Sentite questo titolo: Di come un malinteso senso del decoro e la correttezza politica risultino nell’omissione dal Guinness dei primati dell’evacuazione intestinale umana più lunga del mondo. Apparteneva a un dossier sui record contenuto nel numero cento. Quando Jaime Bedoya, un collaboratore molto serio e fidato, l’aveva proposto Julio Villanueva Chang, il direttore-fondatore aveva vacillato. Era pur sempre la rivista benedetta dalla Fundación Nuevo Periodismo Iberoamericano di Gabriel Garcia Márquez, nel cui comitato editoriale siedono il leggendario reporter di guerra Jon Lee Anderson e Juan Villoro, uno dei più dotati scrittori messicani. Ma lo spunto coprologico si era trasformato in un’occasione per ragionare sui criteri di ammissione nel bizzarro club del Guinness, un trattatello di antropologia. Avevano letto il pezzo ed era stata subito ovazione. Nihil obstat.
Lo stesso numero speciale conteneva tra l’altro un ritratto di Carlos Slim, l’uomo più ricco del pianeta, che si apre con il magnate che tira sul prezzo, calcolatrice alla mano, su una partita di libri regalo che aveva ordinato per Natale. E un altro sulla über-modella Gisele Bundchen, nella sua dimensione di macchina da soldi globale, che sfreccia da una passerella all’altra («con l’urgenza di un bagnino che sta correndo a salvare un bambino che affoga»). Titolo: Come puoi continuare a essere la numero uno quando devi cambiarti d’abito ogni quattro minuti?. Oltre ai ritratti ci sono i racconti di esperienze. Così, quando d’improvviso muore per infarto il portiere nel suo palazzo, la vicedirettrice si accorge di non sapere niente dell’uomo che tutte le mattine le dava il buongiorno. Per mesi bussa alle porte dei vicini per ricostruirne la vita (scoprendo nel frattempo di sapere ben poco anche sul loro conto). Il risultato è straordinario: leggere per credere (www.etiquetanegra.com.pe e occasionalmente su Internazionale). Storie così, scritte nel miglior modo possibile. La scommessa sull’intelligenza dei lettori paga. La rivista nasce come bimestrale nel 2002. Prima Villanueva Chang curava l’ultima pagina di El Comercio, il principale quotidiano peruviano, quella dedicata ai profili di persone notevoli. Belle letture. Così quando ai fratelli Jara, ricchi stampatori, viene voglia di fare una rivista, lo interpellano. Loro volevano qualcosa di molto patinato, pensato per manager e diplomatici, qualcosa che desse l’idea del lusso (a questo, non al whisky, alluderà poi il titolo). Lui li convince a puntare più in alto.
Il taglio è così originale che i migliori scrittori e giornalisti di lingua spagnola fanno la fila per esserci. Al New Yorker gestione Tina Brown pagavano anche 20 mila dollari per una storia. «Noi invece abbiamo un budget annuale di circa 30 mila dollari per pagarle tutte. Il resto del compenso è in natura, ovvero il lavoro che facciamo insieme all’autore per migliorare costantemente ciò che hanno scritto» giura la vice. Ognuno ha la sua via crucis da testimoniare. Salazar, per esempio, voleva raccontare Albert Adrià, il fratello minore della leggenda della cucina spagnola. Passa quasi un mese a guardarlo lavorare, poi venti giorni per scrivere il reportage, quindi tre perché Cantù lo passi al pettine finissimo. È finalmente in pagina quando, un venerdì notte, riceve una telefonata dal direttore: «Potreste passare da me domattina, giusto per un paio di cose?». Iniziano alle nove e ne escono dodici ore dopo, con una pausa pranzo a base di avanzi cinesi della sera prima. «Una prima bozza che vada bene non esiste in natura» è l’orgoglioso motto della direzione.
Il grande alibi di internet che uccide i giornali qui non attacca. Per questa calvinista del nuevo periodismo «se la gente non ci legge è solo colpa nostra. Bisogna avere un rispetto sacro del loro tempo, dandogli scrittura d’alta qualità. In un mondo che annega nell’informazione smozzicata, fatta di 140 caratteri, i pezzi lunghi sono un lusso di cui c’è sempre più bisogno». La sua personale lista degli errori che i potenziali collaboratori devono evitare è lunga. Alcuni esempi: «Mai chiedere che "la mia voce venga rispettata", perché chi ha una voce non ha bisogno di chiederlo. No a numeri e statistiche senza contesto (esempio: 100 mila donne hanno subito operazioni al seno, tante quante entrerebbero nello stadio Camp Nou). No a incipit banali tipo "il 19 dicembre, alle sette di sera". No al burocratese di chi scrive "precipitazioni" al posto di "pioggia"». L’avventura editoriale prosegue da dieci anni. Le copie, in crescita, sono intorno alle 10 mila. Un gioiello per intenditori, che a breve inaugurerà una versione iPad per allargarne i confini. «Qui siamo feticisti della carta, ma dobbiamo fare i conti col mercato. Spedire la rivista all’estero oggi avrebbe costi improponibili» confessa Elda.
In questi giorni Villanueva Chang è a New York. Di quando in quando insegna alla Columbia University la sua varietà di new journalism. In un convegno ad Aragona, qualche anno fa, aveva illustrato in ordine sparso la sua filosofia. L’editor, aveva esordito autoironicamente, «è un ignorante specialista nel fare domande». Per subito riformulare il confine tra il nostro mestiere e la fiction: «Una storia ha un futuro quando ti suscita domande su cosa succederà dopo. Quando si tratta di realtà però non è sufficiente. Serve una spiegazione. Serve passare dalla letteratura al giornalismo. Serve urgentemente un cronista». Insistendo su come l’unico lusso di cui questo artigiano della conoscenza non possa fare a meno sia il tempo. Per aspettare che le cose succedano. Per capirle. Scriverle. Farsele correggere e riscriverle. Quindi capirle, e farle capire meglio. Aveva citato, in un guazzabuglio di suggestioni, la fatwa di Nietszche: «Un altro secolo di periodici e le parole finiranno per appestare!». Si può dire che abbia creato Etiqueta Negra, espressamente per smentirlo. Giura: «Fare questo giornale è indovinare le storie che desiderate leggere, anche se non lo sapete». Ci vuole un talento medianico, più che mediatico. Loro ce l’hanno.
Riccardo Staglianò