Massimo Franco, La crisi dell’impero vaticano, Mondadori, Milano, 2013 pp. 18-32, 12 aprile 2013
LO SPREAD, UN PECCATO CATTOLICO
di Massimo Franco
(da La crisi dell’impero vaticano, Mondadori 2013, Milano, pp. 18-32)
La «legge di Martin Lutero»
Forse sulle sponde mediterranee dell’Europa è difficile capirlo, ma nel Nord del continente i debiti e lo spread alti delle nazioni del Sud sono considerati peccati cattolici. In tedesco il termine «Schuld» non significa solo debito: vuol dire anche colpa. Sono variazioni semantiche che riflettono differenze culturali profonde fra la Germania e altre nazioni europee. E nelle tensioni provocate negli ultimi anni dalla crisi economica fra i Paesi del Nordeuropa e quelli dell’area mediterranea, aiutano a comprendere meglio il sostrato della diffidenza di fondo, fino al pregiudizio, dell’«Europa del freddo» nei confronti di quelli che vengono percepiti come membri dell’allegro e incosciente «Club Med»: nel senso di Club Méditerranée, la catena francese di villaggi turistici. La parola conferisce al «debito» un’eco che assume vibrazioni diverse: ben più eticamente discriminanti rispetto alla diatriba sui bilanci dei singoli Stati, sulla necessità di far funzionare meccanismi di solidarietà e di soccorso finanziario.
Rimanda senza volerlo, anzi quasi con la paura di dirlo, a una serie di valori etici che impastano cultura e religione, e iniettano nelle fibre stanche e spaventate dell’Unione europea veleni antichi. Di fatto, viene toccato ed evocato un tabù che riporta in auge fantasmi di guerre di religione, di sanguinosi decenni di Riforme e Controriforme, di conflitti nazionalistici e scismi combattuti all’ombra del Dio europeo. Si tratta di un aspetto delle polemiche degli ultimi mesi affrontato solo di sfuggita. Eppure continua ad affiorare a intermittenza, come una sorta di fiume carsico tossico che accompagna e orienta la paura di un disastro della moneta unica, e di economie passate in pochi mesi dalla solidità e dalla ricchezza alla prospettiva concreta del declino.
La nuova retorica antitaliana e antimediterranea, e all’opposto antitedesca, si nutre inconsciamente di stereotipi non soltanto culturali ma religiosi. «Verità» antiche, sepolte nella memoria del Vecchio Continente come segreti, recriminazioni, accuse tenuti in sonno per decenni; e da non riesumare per non distruggere il faticoso compromesso fra nazioni che ha garantito a lungo pace sociale e politica. Ma l’incertezza odierna li ripropone al di là di ogni buona intenzione, a supporto di quanti propugnano nuovi isolazionismi, ostinati nazionalismi e miopi «fai da te» nella convinzione illusoria che da soli ci si possa salvare meglio.
È una solitudine accarezzata in primo luogo dalla Germania che si definisce luterana, e da Paesi pure a maggioranza protestante come Finlandia, Olanda e via risalendo e soprattutto escludendo. Al punto che si è arrivati a teorizzare che se Martin Lutero, il teologo e riformista tedesco del XVI secolo, avesse potuto essere presente a Maastricht nel 1992, quando furono gettate le basi dell’unione monetaria europea, avrebbe bocciato qualunque possibilità di fare aderire le nazioni cattoliche. «Leggete le mie labbra: nessun Paese cattolico che non ha vissuto la Riforma protestante» avrebbe ripetuto come una litania. È questa la «legge di Lutero» che oggi il Nordeuropa si rammarica non sia stata applicata; e la cui violazione sarebbe alla base di tutti i guai. Se invece «le labbra» del capofila del protestantesimo fossero state lette a dovere, «l’euro sarebbe stato molto più compatto, e l’economia europea molto meno in difficoltà», ha scritto Stephan Richter, direttore del Globalist, un sito seguitissimo che da Washington analizza i trend mondiali nell’era della globalizzazione. Richter è un commentatore cattolico ma soprattutto tedesco. E teorizza che «un eccesso di cattolicesimo danneggia la salute fiscale delle nazioni, anche adesso nel XXI secolo». [1]
Insomma, per analizzare l’idoneità di un Paese a far parte della comunità della moneta unica europea sarebbe bastato non passare al setaccio il suo bilancio pubblico ma i suoi cromosomi religiosi. Bocciature e promozioni sarebbero state più facili; e probabilmente inappellabili, basandosi su dati più che «concreti»; ancestrali, comunque ultracentenari. Se un Paese europeo si fosse convertito dal cattolicesimo al luteranesimo o più in generale al protestantesimo cinque secoli fa, quando Lutero, Calvino e Zwingli si erano ribellati al Papa, sarebbe stato possibile individuare fin da allora quelle nazioni come le sole qualificate per abbracciare il sistema monetario unico di cinquecento anni dopo. Cattolici e Greci ortodossi sarebbero stati invece tagliati fuori.
Perché i «Pigs» sono cattolici
L’assunto è assai semplice: i cosiddetti Pigs, o Piigs, acronimo che sta per «maiali» in inglese e indica le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, o con la doppia «i» comprende anche l’Italia, sono tutti Paesi con una maggioranza di cattolici o ortodossi. Stati che il debito pubblico altissimo rende anche «colpevoli» e «peccatori», per seguire l’etimologia tedesca; e tendenzialmente non redimibili. La novità è che questa etichetta ultimamente sta assumendo non un significato congiunturale, legato oltre tutto a una crisi del capitalismo finanziario, esportata dal sistema statunitense, ma una sorta di sentenza di condanna definitiva nei confronti di una cultura, di un modo di governare; e, ancora, di una religione.
Alla base di queste nazioni «viziose» ci sarebbe l’incapacità di emanciparsi dal cattolicesimo: una cultura, prima ancora che una fede, passata dalla pratica delle indulgenze, del denaro dato alla Chiesa per farsi perdonare i peccati, a un’eccessiva tolleranza in materia di «peccati fiscali». Secondo questa tesi, che il Globalist spiega ma che si è diffusa in circoli culturali sempre più ampi in Nordeuropa, la tendenza di massa a non pagare le tasse, i casi di corruzione diffusa sono figli legittimi del «non protestantesimo». Italia e Grecia, ma anche Spagna sono afflitte da «malattie cattoliche» che significano colpevole tendenza a perdonare i peccati, siano essi fiscali o no.
Ma questa guerra di religione e di quarti di nobiltà capitalista in retrospettiva conferma solo l’ambiguità e insieme la pericolosità di un’operazione che sembra annunciare una rottura e non una riconciliazione europea. È come se ogni fronte preparasse le ragioni «oggettive», «incontestabili», «divine» per compiere la forzatura e rispondere agli istinti nazionalisti che si stanno svegliando nelle rispettive opinioni pubbliche.
L’allarme del presidente del Consiglio italiano, Mario Monti, sul rischio che lievitino «le pulsioni antitedesche» in risposta alla rigidità del cancelliere tedesco Angela Merkel, fa il paio con l’esasperazione della «Germania profonda» nei confronti di nazioni mediterranee come l’Italia. La solidarietà non solo non è dovuta, ma sarebbe un cedimento inaccettabile alla «cultura del peccato» e del debito di un’Europa cattolica che non merita aiuto perché lo butterebbe via comunque. Senza valutare questi presupposti cultural-religiosi, diventa difficile capire l’incomunicabilità apparente fra le classi dirigenti europee; e il tentativo strumentale di alcuni partiti politici e gruppi economici di sfruttarlo e cavalcarlo.
L’ex presidente degli industriali tedeschi, Hans-Olaf Henkel, che accusa l’euro di dividere l’Europa, è solo l’avanguardia di un movimento più profondo, che rivela la paura di un contagio «mediterraneo» e rianima l’eterno fantasma dell’inflazione: quello da cui alla fine nacque l’orrore del nazismo. L’iperinflazione che all’inizio degli anni Venti del Novecento colpì il Paese è qualcosa di radicato nella memoria storica della Germania. L’idea che tedeschi, finlandesi e olandesi prendano l’iniziativa per creare una «moneta unica del Nordeuropa» contro un «euro mediterraneo» di serie B è uno dei modi per rivendicare il primato protestante su quello cattolico; e per affermare l’impossibilità di un’alleanza fra stati della «cintura della Bibbia» e della «cintura del Vangelo». La Bbc inglese ha parlato di una «linea di rottura religiosa nell’eurozona», [2] evocando una nuova frattura consumata assecondando vecchi schemi. E ha ricordato che «il governo di Berlino ha già cominciato i piani per celebrare nel 2017 quello che considera un anniversario estremamente importante: i 500 anni della Riforma luterana».
«La globalizzazione l’hanno fatta i cattolici!»
La polemica sta assumendo connotati tali da aver provocato analisi esattamente agli antipodi: il tentativo di economisti soprattutto spagnoli di risalire alle origini del capitalismo, smentendone l’origine protestante e mettendo invece in risalto le capacità di espansione e il dinamismo di quello spagnolo e cattolico; e proprio negli anni a cavallo tra Riforma e Controriforma. Il diplomatico Luis Francisco Martinez Montes ha ironizzato sugli «economisti-teologi» protestanti, che giudicano le altre denominazioni cristiane «inadatte culturalmente e moralmente al capitalismo e alla globalizzazione».
E ha raffigurato Lutero, Calvino e Zwingli come degli inguaribili provinciali che non riuscivano a guardare oltre gli angusti confini dell’Europa centrale. In quegli stessi anni, invece, continua Martinez Montes, «le loro controparti cattoliche, immerse nelle prime esplorazioni, conquiste e amministrazioni di terre lontane, dedicavano gran parte delle loro risorse materiali e intellettuali alla creazione della prima rete di mobilizzazione dei capitali, delle idee e delle anime su scala globale». [3] Con orgoglio ispanico, l’analista ha ricordato provocatoriamente che le elaborazioni e gli studi sull’organizzazione del primo Commonwealth mondiale non sono spuntati nella Oxford anglicana, né nella Ginevra calvinista o nella zwingliana Zurigo, ma alla scuola di Salamanca, in Spagna, all’ombra della monarchia più cattolica d’Europa.
Si tratta di una sorta di contro-analisi e contro-verità rispetto a quella corrente e dominante. E confuta uno a uno i fondamenti di quella che considera la presunta egemonia protestante sul pensiero capitalistico. Anche le tesi di Max Weber sulla secolarizzazione del potere e del sapere come premesse indispensabili della modernizzazione vengono rilette in chiave antitetica. Nell’articolo del Globalist sulle «origine cattoliche della globalizzazione», Martinez Montes ricorda polemicamente che quando Francis Bacon pubblicò nel 1627 il Nuovo Atlante, «l’idea di un’istituzione tesa a usare il sapere per acquistare potere e soldi era già stata realizzata da oltre un secolo nella penisola iberica».
Cita la Casa da India portoghese del 1501 e la Camera del Commercio di Siviglia fondata nel 1503. Insomma, il succo è che contrariamente al «mito protestante», anche dopo il relativo declino spagnolo nella seconda metà del XVII secolo, non erano Londra e Amsterdam a dominare l’economia mondiale. Queste città protestanti potevano avere accesso all’argento e all’oro dell’America ispanica, potevano prenderlo col commercio, con la pirateria, con le guerre, ma la fonte del capitalismo era nelle mani della Spagna. Per tre secoli, è stato questo Paese cattolico e la sua Armada a custodire e distribuire enormi quantità di monete d’oro e d’argento: «la linfa vitale della prima economia globale».
Poi è venuta l’Inghilterra, e nel XX secolo sono arrivati gli Stati Uniti. Martinez Montes cita il primo conio deciso nel 1792 dal segretario al Tesoro statunitense, Alexander Hamilton. Hamilton fissò il valore del dollaro dicendo che doveva essere «uguale al valore del dollaro spagnolo». La moneta era chiamata a testimone dell’origine cattolica del primo sistema monetario internazionale. Deve essere chiaro che «le potenze protestanti sono arrivate dopo», ribatte agli «economisti-teologi». «Non hanno creato la prima moderna globalizzazione, ma ci sono semplicemente saltate sopra e hanno imparato a trarne profitto.»
Georeligione dello spread
Insomma, sembra quasi che sulla scia della crisi dei mercati finanziari occidentali si stia delineando non solo una geopolitica e una geoeconomia dello spread, ma anche una sorta di georeligione del differenziale fra interessi sui titoli di Stato tedeschi e dei Paesi cattolici. La fede condiziona la geografia europea quanto l’economia e la politica; impregna i comportamenti dei popoli e spiega le motivazioni più recondite di quanto sta accadendo. Al punto che l’atteggiamento rigorista ed «egoistico» tedesco viene attribuito allo spostamento della capitale da Bonn, espressione di una Germania figlia del compromesso con la Baviera a maggioranza cattolica, alla Berlino protestante e orientale. E al passaggio dalla generazione degli Helmut Kohl, il regista renano e cattolico dell’unificazione tedesca, alla cancelliera Angela Merkel, che viene dalla Germania dell’Est ed è figlia di un pastore protestante. Lo stesso neopresidente tedesco, Joachim Gauck, è un ex pastore luterano.
Per questo non sorprende che durante il vertice dei capi di governo dell’area della moneta unica, nel luglio del 2012 a Bruxelles, l’apparente vittoria della linea perseguita dall’Italia di Monti e dalla Spagna di Mariano Rajoy per un aiuto ai Paesi più indebitati sia stata vissuta nella capitale tedesca non come un compromesso ma come una sconfitta inaccettabile. E parlando di una «nuova Alleanza Latina» sostenuta dal neoeletto presidente francese, il socialista François Hollande, tutt’altro che cattolico, si sono create le premesse per il rigetto da parte protestante dell’approccio «mediterraneo» alle questioni monetarie. E il 23 novembre 2012, il fallimento della mediazione sul bilancio europeo è nato dal «no» di Gran Bretagna, Germania, Olanda, Finlandia, Svezia e Spagna: il «club dei ricchi» protestanti.
È il segno del grande cambiamento avvenuto dopo oltre vent’anni di riunificazione e integrazione tedesca. Sembra la rivincita delle tradizioni prussiane e protestanti contro l’entusiasmo dei cattolici tedeschi nei confronti dell’Europa: dagli anni del dopoguerra del cancelliere Konrad Adenauer, antesignano della Comunità economica europea, fino appunto a Kohl, teorico di un’Europa legata da antiche radici spirituali comuni. Ora rispuntano radici divergenti, potenzialmente conflittuali e anche artificiosamente inconciliabili, perché la georeligione dello spread in versione luterana costringe a qualche strattone politico-geografico. Bisogna inserire nella «legge di Lutero» nazioni dove i cattolici contano, e molto, come Polonia, Austria e Francia, sebbene la Polonia non sia ancora nell’euro.
E la spiegazione di chi teorizza il primato delle virtù protestanti è che Francia e Austria, ma anche Polonia, sono Paesi confinanti con la Germania; e dunque influenzati benignamente dalle sue logiche economiche. Esisterebbe un’attrazione «tolemaica» da parte del «sole tedesco» nei confronti di nazioni che capiscono quanto sia nel loro interesse adattarsi a un ambiente economico ed etico improntato ai principi del rigore. «Cattolici forse, ma con una sana dose di protestantesimo fiscale» sostiene Stephan Richter. Con un ulteriore beneficio proveniente dal «carattere protestante» degli Stati baltici e di quelli scandinavi.
Nel nuovo «asse forte dell’Europa», come l’ha chiamato Le Monde, quello fra Germania e Polonia, protestantesimo e cattolicesimo si fondono in nome di interessi geopolitici. «I tedeschi vogliono che si sviluppi un’Europa nordica e baltica» ha spiegato al quotidiano francese Jacek Rostowski, ministro delle Finanze polacco. «È un circolo politico, geografico e culturale che a noi porta vantaggi». [4]
Il dubbio di mettere in fila e razionalizzare una serie di stereotipi religiosi è ammesso esplicitamente. Ma viene negato ricorrendo alla tesi di una sorta di «principio di adattamento» mutuato dalla biologia. Lutero non si è radicato in alcuni Paesi europei, ma è riuscito a imporsi grazie alla benigna influenza tedesca in Francia, Austria e perfino nel Nord dell’Italia riuscendo a forgiare i valori economici, l’etica del lavoro e l’integrità tipiche del protestantesimo, insomma, è diventato un «profeta fiscale» sia nell’Europa luterana che in ampie aree di quella cattolica. Eppure, viene lasciato in ombra un dettaglio non da poco, evidenziato invece da Sanjaya Baru, dell’International Institute for Strategic Studies: che la Germania è uno dei «beneficiari geopolitici della crisi del debito europeo. Il suo potere economico e finanziario dentro l’Ue le ha permesso di acquisire quel potere politico di cui non aveva beneficiato per un lungo periodo...». [5]
Nel dicembre del 2012 il settimanale britannico The Economist ha svolto un’inchiesta significativa. Ha paragonato la crisi della moneta unica di questi anni a quella del Sacro Romano Impero nel XVII secolo, ritenendo di trovare similitudini vistose. Quanto accadde allora nacque, secondo il periodico londinese, dal predominio crescente assunto dalla Prussia. «Rileggendo quelle vicende con le lenti di oggi, si potrebbe vedere l’origine della crisi odierna e i pericoli che pone a lungo termine, nella rapida crescita della Germania dopo la riunificazione con quella dell’Est (che coincideva in larga parte proprio con la Prussia e il Brandeburgo)» osserva il settimanale. E ricorda come la guerra dei Trent’anni conclusasi nel 1648 con la pace di Vestfalia «cominciò come un tentativo di risolvere i problemi della sovranità degli Stati, per poi assumere i contorni di una guerra di religione fra Protestanti e Cattolici, e poi portare tutti i poteri europei ad un “tana libera tutti” con re, principi e generali che si scannavano, stupravano e saccheggiavano a piacimento». [6]
L’assillo di Benedetto XVI
C’è da chiedersi come debba essersi sentito in questi schemi un pontefice tedesco e bavarese come Benedetto XVI. Il papa si è ritrovato suo malgrado al centro di questo scontro, e lo ha vissuto nella doppia veste di cittadino di uno Stato ipercritico verso la cultura economica cattolica, e di capo del cattolicesimo. Di più: Benedetto XVI conosceva bene le pulsioni più profonde del popolo tedesco. E ha concentrato nella sua persona il dilemma europeo di questi anni, mescolando l’esigenza di ricristianizzare l’Europa con quella di impedire che vecchie divisioni religiose rinascessero sotto l’urto dell’impoverimento e delle paure di vasti strati delle società occidentali. Nella diplomazia discreta e in buona parte sconosciuta che il Vaticano ha messo in atto per ridurre le distanze e le diffidenze fra governi europei, si indovina la preoccupazione per spaccature che sono di primo acchito finanziarie; ma promettono di diventare e in parte già sono anche sociali, politiche, e alla fine religiose.
Quando verso la fine di agosto 2012 Benedetto XVI incontrò nella residenza estiva di Castel Gandolfo il premier italiano Mario Monti, «avrebbe espresso il suo dispiacere per i sentimenti di fastidio verso l’Europa» manifestati dalla Csu, il partito cristiano sociale della Baviera. «Una diffidenza che colpirebbe l’Italia come e più di Spagna e Grecia» scrisse qualche giorno dopo Gian Guido Vecchi sul «Corriere della Sera». [7] «In Dio cadono le frontiere» aveva ammonito il pontefice ricordando «un santo veramente europeo», Giuseppe Labre, di fronte al governatore della Baviera Horst Seehofer. E Bertone ha contestato la lettura georeligiosa. «Mi sembra che la crisi abbia colpito tutta l’Europa, evidenziando i punti deboli di ogni Paese... Pertanto, la tesi di chi vuole trovare nell’indebitamento un “fattore religioso e culturale”» ha dichiarato al quotidiano di Barcellona, La Vanguardia, il 23 settembre 2012 «può sembrare suggestiva. Tuttavia non solo non sembra storicamente giustificabile ma corre il rischio di essere un pretesto per non cercare soluzioni opportune».
In palio non c’è tanto l’euro, ma la pace europea. La moneta unica è stata pensata come strumento di coesione economica e soprattutto come antidoto ai nazionalismi, catalizzatori di guerre europee e mondiali. «La motivazione originale era largamente politica. Serviva a escludere qualunque futuro conflitto nel cuore del continente» ha osservato lo studioso della John Kennedy School of Government di Harvard, Jeffrey Frankel. [8] Solo come secondo risultato, il blocco che oggi raccoglie 17 Paesi europei si poneva quello di diventare il contraltare allo strapotere del dollaro statunitense. La sua crisi mette dunque in pericolo la stabilità delle nazioni del Vecchio Continente ma soprattutto la loro convivenza pacifica.
Da tempo l’economia è diventata la prosecuzione della guerra con altri mezzi. E gli Stati non sono destinati a scomparire ma a riorientare la loro struttura in direzione della geoeconomia «per compensare un ruolo geopolitico in decadenza», aveva previsto in un saggio del 1990 lo studioso statunitense Edward Luttwak. «La geoeconomia è il miglior termine col quale descrivere la miscela fra logica del conflitto e del commercio.» [9] Ma se è vero che oggi le guerre moderne si combattono non con le armi tradizionali ma attraverso leve economiche e finanziarie, non si può non vedere il rischio che anche l’elemento religioso possa diventare il pretesto superstizioso che le legittima e le giustifica. Minaccia di apparire il mantello nobile e ipocrita di valori giocati per dividere e non per unire; per affermare una diversità che somiglia tanto alla superiorità nei confronti di altre nazioni e altri popoli.
Il dramma del papa tedesco nasceva dalla consapevolezza delle tentazioni egemoniche che storicamente riemergono nella sua Germania. Sapeva di avere pochi strumenti per incidere su una mentalità che guarda al Sudeuropa con le lenti di un passato lontano. Così, mentre la Chiesa cattolica perde fedeli e carisma, in particolare nelle nazioni nordeuropee, anche in conseguenza dello scandalo degli abusi sessuali dei sacerdoti, l’aspetto economico approfondisce la crisi e inserisce un ulteriore elemento di contrasto. A Benedetto XVI non è bastato combattere con coraggio, e superando molte resistenze, il fenomeno della pedofilia nella Chiesa cattolica; né il fatto che lo scandalo fosse ben presente anche in altre realtà religiose.
Pesa la percezione del cattolicesimo come «religione debole» moralmente, viziata da un perdonismo e da un’inclinazione all’indulgenza che ne hanno sempre costituito la forza; e che invece ora le vengono rimproverate come difetti intollerabili. La domanda da porsi è perché tutto questo avvenga adesso. La risposta è racchiusa, in parte, nella fine della guerra fredda. Lo scandalo della pedofilia, per esempio, ha avuto inizio quando l’opinione pubblica occidentale, prima statunitense e qualche anno dopo nordeuropea, ha tirato le conclusioni della «laicizzazione del peccato». E si è rifiutata di continuare a considerare solo come devianze da risolvere nel chiuso delle parrocchie e dei conventi crimini disgustosi, da denunciare all’autorità giudiziaria.
I fantasmi della vecchia Europa
Finché il Vaticano era parte del sistema di sicurezza occidentale, una sorta di «braccio morale» delle democrazie contro il nemico sovietico, esisteva una specie di margine di tolleranza nei confronti della «cultura del silenzio» delle gerarchie cattoliche. Ma quell’epoca è finita, e la Chiesa ha faticato a capire il cambiamento di paradigmi culturali, prima che religiosi. Il risultato sono state le tensioni crescenti con alcuni governi nazionali come quello belga, quello tedesco, quello olandese; e perfino con l’Irlanda una volta cattolicissima. La chiusura dell’ambasciata del governo di Dublino presso la Santa Sede, nell’autunno del 2011, è stata un sottoprodotto di questa incomprensione dei nuovi tempi da parte del Vaticano.
Il secondo motivo delle tensioni che si stanno estendendo a livello religioso è la torsione verso il Nord e verso l’Est degli equilibri di potere europei, in seguito all’allargamento dell’Ue. Lo spostamento del baricentro ha dato più forza e peso ai Paesi luterani e protestanti, e indebolito quella cultura cattolico-liberale e quella nomenklatura che avevano forgiato l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, lungo l’asse di un’alleanza fra Centro e Sud Europa. La scomparsa del comunismo, abbinata a un crescente senso di precarietà e di incertezza, ha fatto rinascere le lotte intestine; e risuscitato la mitologia del conflitto fra «mondo germanico» e «mondo latino». Si tratta di un ripiegamento suicida, che emerge di pari passo con l’emarginazione crescente dell’Europa in un mondo globalizzato.
Risvegliare fantasmi nazionalistici e religiosi tenuti a bada per decenni perché se ne intuiva la pericolosità è un segno di decadenza del Vecchio Continente, e insieme di mancanza di senso della storia. «Dopo decenni di geostrategia meridiana che in nome dello scontro Usa-Urss opponeva Europa occidentale e orientale, i “due polmoni” di Wojtyla», è stato notato lucidamente, «il limes continentale sembra ormai correre lungo i paralleli, e opporre Nord e Sud». Niente più cortina di ferro ma «carattere nazionale». E l’euro con la sua infezione da spread diventa il fattore scatenante della nuova partizione continentale. [10]
Nel frattempo, l’Europa è esposta al doppio rischio della secolarizzazione e della penetrazione musulmana, al quale si aggiunge una frammentazione in cui potrebbero riemergere come linee divisorie anche cattolicesimo e protestantesimo. Quando lo storico Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione internazionale del governo Monti e fondatore della Comunità romana di Sant’Egidio, intravede «guerre tra poveri anche religiose» nel cuore dell’Europa, non esagera il pericolo. Anche per questo, nel settembre del 2012, Sant’Egidio ha organizzato l’incontro annuale fra capi religiosi di tutto il mondo proprio a Sarajevo, nella ex Jugoslavia: la città-simbolo dei più cruenti scontri etnici e religiosi della storia recente dell’Europa. È la testimonianza che occorre possedere il coraggio e la forza di analizzare con freddezza le implicazioni di quanto sta accadendo.
La democrazia a rischio
La frattura fra «ricchi» e «poveri» passa di nuovo fra Nord e Sud: ma stavolta non del mondo intero ma della stessa Europa. E le polemiche fra «virtù» protestanti e «colpe» cattoliche sul piano finanziario preparano strumentalmente il terreno per questo scontro. Non capendo bene dove si va a finire, rispuntano i mostri, si cerca il nemico, si addita il capro espiatorio per le cose che non vanno. E la Chiesa di Roma appare spaventata, con le lenti troppo appannate per leggere i segni dei tempi. È parte della crisi dell’Occidente europeo, e non sembra in grado di offrire una soluzione o anche solo una visione di fronte a uno scontro di civiltà che un tempo era «combattuto per la vera Fede. Oggi dilaga per causa di una moneta senza sovrano, cui coloro che non l’avrebbero voluta hanno perciò attribuito un senso religioso». [11]
Eppure, sta diventando chiaro che in bilico, con l’euro, sono anche la pace e le basi democratiche dell’Europa. Quando i sistemi parlamentari non garantiscono più benessere, bruciano i risparmi o comunque non riescono a impedire che la speculazione finanziaria li bruci, e la disoccupazione supera il dieci per cento e in Paesi come Grecia e Spagna viaggia sopra il venti per cento, con livelli più che doppi per i giovani, in gioco c’è la democrazia. E l’irritazione del Sudeuropa, ma anche della stessa Francia, verso il rigorismo moralistico «luterano» nasce dalla percezione netta che non prepari una soluzione ma usi principi antropologici cripto-razzisti per legittimare uno smarcamento gonfio di presagi recessivi.
La leggerezza con la quale si parla di uscita dal’eeuro somma demagogia e irresponsabilità. Basta leggere il rapporto pubblicato nel settembre del 2011 da tre ricercatori dell’Ubs, l’Unione delle banche svizzere, che quantifica il costo di una rottura del sistema della moneta unica. Stephane Deo, Paul Donovan e Larry Hatheway offrono un’analisi da incubo, che lascia capire come la fine dell’euro equivarrebbe alla distruzione dell’Europa. [12] Già i costi economici danno i brividi. Nonostante manchino calcoli esatti, perché si aprirebbero scenari in parte inimmaginabili, le stime per difetto parlano di un calo del prodotto interno lordo fra il 40 e il 50 per cento per le nazioni più deboli che dovessero lasciare l’area della moneta unica.
Tuttavia, per la stessa Germania il prezzo da pagare in caso di uscita dall’euro sarebbe salatissimo: «circa il 20,25 per cento del suo Pil nel primo anno» scrivono gli analisti dell’Ubs. Ma, e qui si torna al cuore del problema, il vero disastro sarebbe politico. Il rapporto, destinato agli investitori a caccia di buoni affari, spiega che «il costo economico di una rottura nell’area dell’euro è la minore delle preoccupazioni da considerare. Il “soft power” europeo a livello internazionale finirebbe, e lo stesso concetto di Europa non avrebbe più senso. E vale la pena di osservare che a oggi tutte le unioni monetarie che si sono spezzate non hanno evitato qualche forma di governo autoritario o militare o di guerra civile...».
Una guerra civile-religiosa fra cristiani sarebbe la ciliegina rancida destinata a completare l’avvelenamento dell’identità europea costruita dopo il secondo conflitto mondiale. Sentimenti antitedeschi contro pulsioni antitaliane. Nord ricco e virtuosamente meno indebitato, corazzato nella propria intransigenza luterana, contro Sud povero, debitore e per questo colpevole della propria auto-indulgenza tutta cattolica. Gente in piazza prima contro i propri governi, poi magari sotto le sedi di ambasciate improvvisamente percepite come «nemiche». E alla fine i fantasmi dell’odio nazionalista. Sono istantanee da prendere in esame per evitare che si concretizzino. In fondo, il ricordo delle pulizie etnico-religiose nella ex Jugoslavia in coda alla caduta del Muro di Berlino sono lì ad ammonire su un pericolo presente, tangibile, ancora fresco di sangue.
Se lo spread è anche una colpa da confessare e un peccato da espiare, per i quali l’assoluzione giustamente non è più scontata, le scomuniche e i presunti primati geoeconomici e georeligiosi minacciano di diventare scorciatoie destinate a ricacciare indietro la storia d’Europa non di qualche anno, ma di decenni: quelli più bui.
Note: [1] Stephan Richter, Martin Luther and the Eurozone: theology as an economic destiny?, The Globalist 14/5/2012; [2] Chris Bowlby, The eurozone’s religious faultline, Bbc Radio 4 19/7/2012; [3] Luis Francisco Martinez Montes, The catholic origins of globalization, The Globalist 1/6/2012; [4] Piotr Smolar, Pologne-Allemagne nouvel axe fort en Europe, Le Monde 16/11/2012; [5] Sanjaya Baru, Geo-economics and strategy, Survival giugno-luglio 2012; [6] The Holy Roman Empire and the euro crisis, «The Economist» 22/12/2012 – 4/1/2013; [7] Gian Guido Vecchi, E il Papa è dispiaciuto per i sentimenti anti-italiani in Baviera, Corriere della Sera 31/12/2012; [8] Jeffrey Frankel, Economie shocks and international politics, Survival giugno-luglio 2012; [9] Edward Luttwak, From geopolitics to geo-economics: logic of conflict, grammar of commerce, The National Interest n. 20 1990; [10] Lucio Caracciolo, La Spagna non è l’Uganda, Limes n. 4 2012; [11] Ibidem; [12] Stephane Deo, Paul Donovan e Larry Hatheway, Euro break-up, the consequences, Ubs Investment Research, Global Economic Perspectives 6/11/2011.