Adam Higginbotham, Wired 5/4/2013, 5 aprile 2013
TURISTI SU MARTE
A volte sembra quasi sparire nel deserto. Concepito come un gioco di prestigio architettonico e topografico, il Virgin Galactic Gateway to Space spunta come una curva sinuosa dalla sabbia del New Mexico, e le sue superfici d’acciaio maltrattate dalle intemperie appaiono come un miraggio rosso-brunito all’orizzonte. Al crepuscolo, la sagoma del primo aeroporto spaziale a scopo commerciale si fonde lentamente con le linee di cresta delle montagne di San Andres, a una trentina di chilometri.
Il percorso che gli astronauti dei viaggi organizzati di domani compiranno attraversando l’edificio è stato progettato dagli architetti di Poster + Partners per fornire un anticipo di viaggio nello spazio: una rampa in cemento sale dolcemente verso il centro della struttura; uno spacco stretto e sormontato da una copertura, che perfino nella luce accecante del sud-ovest forma un piccolo rettangolo di oscurità assoluta. Una targhetta magnetica, fornita a tutti i passeggeri, aziona pesanti porte di acciaio che si aprono su un corridoio angusto e semibuio, le cui pareti si incurvano in direzione di un’altra porta d’ingresso oscurata, e di una passerella con vista sui quattro piani sottostanti dell’hangar di 4300 metri quadrati che ospiterà la flotta di navi spaziali a bordo delle quali viaggeranno. E poi il gran finale: l’ultima serie di porte si spalanca sulla sala d’aspetto degli astronauti, un’area ampia e priva di suddivisioni, con una parete ellittica a vetri che permette di vedere la pista di decollo lunga tre chilometri e il cielo. L’effetto è quello voluto dagli architetti: anche-se l’edificio non è ancora finito, un gruppo di turisti potenziali in visita guidata è stato talmente sopraffatto dall’emozione da avere le lacrime agli occhi. Eppure qui nel deserto la posta in gioco è ancora molto alta. Attualmente sono nove, negli Stati Uniti, i luoghi designati a diventare spazioporti, ma il complesso del New Mexico, Spaceport America, è l’unico costruito da zero per ospitare un regolare servizio passeggeri. È sorto in una pianura disabitata, a 50 chilometri di distanza dalla città più vicina. Per costruirlo finora sono stati spesi quasi 250 milioni di dollari; gli ingegneri hanno dovuto asfaltare 16 chilometri di strada solo per collegare il sito al mondo esterno; e il conto totale per la pista di decollo e atterraggio alla fine arriverà ai 37 milioni di dollari. E per quanto l’edificio al centro porti il nome di Virgin Galactic e sia stato progettato in base alle esigenze dell’azienda, lo ha pagato lo stato del New Mexico.
In un freddo mattino di novembre incontriamo Christine Anderson, ex ufficiale dell’Us Air Force, ora incaricata di dare vita a Spaceport America, lungo una strada di accesso spazzata dal vento, nei pressi del Gateway to Space. «Questo è l’inizio dell’industria dei voli di linea spaziali», dice. L’opera dovrebbe essere completata entro la fine del 2013; Virgin Galactic ha in programma di far partire un servizio regolare, con voli spaziali giornalieri, già nei primi mesi del 2014. Anderson è ottimista sul futuro: i voli suborbitali quotidiani saranno seguiti da viaggi intercontinentali da un punto all’altro della terra, che attraverseranno il globo nel tempo necessario a vedere un film sugli schermi di bordo; le escursioni fuori dall’atmosfera terrestre diventeranno routine, come prendere l’autobus. «Spero che questo inauguri una nuova era nei viaggi spaziali», dirà Richard Branson. Ma perché tutto ciò possa realizzarsi, Virgin Galactic dovrà costruire un razzo in grado di volare.
I VIAGGI UMANI nello spazio sono stati un pezzo forte della science fiction più o meno dalla nascita delle linee aeree commerciali. La perfetta, insuperata prefigurazione di un futuro privo di attrito l’abbiamo vista nelle scene d’apertura di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, dove una hostess Pan Am con il turbante distribuisce spuntini a gravita zero, durante il viaggio che ha come meta un hotel Hilton orbitante. Quando il film di Kubrick uscì, nel 1968, la vera Pan Am aveva già aperto una lista d’attesa per i viaggi sulla luna, che secondo le previsioni sarebbero partiti entro il 2000, e cominciato a distribuire tessere numerate del loro club, First Moon Flights. Galvanizzate dall’allunaggio dell’anno successivo, 98mila persone provenienti da ogni parte del mondo si misero in lista; una tentò addirittura di prenotare un posto staccando un assegno di un milione di dollari.
Ma l’euforia dell’Apollo 11 non durò a lungo. La Nasa tagliò il programma di esplorazioni lunari, e nel 1971 una Pan Am altrettanto a corto di soldi chiuse la lista di attesa. Quando la compagnia aerea alla fine fece bancarotta, nel 1991, il club dei primi viaggi sulla luna diventò una beffarda postilla al necrologio dell’azienda.
Richard Branson oggi ha 62 anni e la sua chioma, da bionda che era, sta virando verso un bianco un po’ ingiallito; ricorda ancora di aver visto Armstrong e Aldrin passeggiare sulla luna dalla tv a casa dei suoi. Branson aveva compiuto 19 anni da qualche giorno, e faceva parte di quella generazione di sognatori che si sarebbero sentiti imbrogliati dal futuro di fronte al fallimento dei loro sogni di viaggi spaziali accessibili al popolo. «Io ero profondamente convinto che un giorno non lontano avremmo potuto volare nello spazio, tutti», dice.
Alla fine degli anni ’80 Branson era già uno degli uomini più ricchi del mondo, proprietario di una compagnia aerea, e si stava cimentando nell’organizzazione di passatempi da scavezzacollo: traversate atlantiche su motoscafi da corsa, viaggi da record in mongolfiera. In quel periodo gli arrivò la telefonata dell’ambasciatore sovietico a Londra. L’ambasciatore spiegò a Branson che Mikhail Gorbaciov aveva una proposta da fargli: gli sarebbe piaciuto diventare il primo turista dello spazio? Avrebbe avuto bisogno di un addestramento di 18 mesi presso una cittadella spaziale fuori Mosca; la proposta nascondeva un trabocchetto non indifferente: «Mi sarebbe costato circa 50 milioni di dollari», racconta Branson. Il prezzo era un problema. «Sentivo che spendere tutti quei soldi per andare nello spazio sarebbe apparso uno spreco. Facevamo un sacco di opere benefiche in Africa e in paesi poveri, così pensai che quella somma fosse eccessiva, anche se in fondo me la sarei potuta permettere». E quindi Branson decise di declinare l’offerta: «Adesso penso che avrei dovuto accettare, giustificando la spesa come esigenza di marketing». Il fatto che il turismo spaziale fosse diventato possibile, anche se soltanto per i miliardari, lo spinse a cercare di comprendere la situazione più a fondo. «Ne la Russia ne l’America erano interessate a far viaggiare nello spazio i milioni di persone che avrebbero voluto farlo». In seguito a questa constatazione cominciò a sondare le opinioni della gente sul turismo spaziale. «Quando chiedevo a una platea quante persone sarebbero partite, se fosse stato offerto loro di viaggiare nello spazio a una cifra abbordabile, e con una ragionevole certezza di tornare indietro sani e salvi, vedevo alzarsi 95 mani su cento». Nel 1995, dopo una chiacchierata con Buzz Aldrin, Branson cominciò a esplorare seriamente le possibilità di democratizzare i viaggi spaziali. Ma quando il capo dei suoi progetti speciali, Will Whitehorn, andò alla Companies House di Londra e tentò di registrare il marchio Virgin per una linea aerospaziale, scoprì che qualcuno lo aveva battuto sul tempo. Branson lo aveva già fatto, zitto zitto, oltre dieci anni prima.
SIR RICHARD BRANSON emerge da un hangar ai margini del Mojave Air and Spaceport, in California, indossando una tuta da pilota nera con uno stemma alato e il nome ricamato sul taschino. L’edificio da cui sbuca è stato dipinto di recente con il logo di Virgin Galactic. Attraversa il piazzale in cemento dell’hangar portando sottobraccio una sagoma di cartone che raffigura la nave spaziale Virgin a sei posti, nota come SpaceShipTwo. Oggi a Mojave, un pugno di edifici in acciaio ondulato grigio-marroncino, è in programma un fulmineo incontro tra dipendenti dell’azienda.
Branson è qui per sottolineare l’acquisizione definitiva, da parte di Virgin, di The Spaceship Company, divisione interamente dedicata alla costruzione di navi spaziali (il motto aziendale è: “We Build Spaceships”). L’edificio appena ridipinto, alle spalle di Branson, è il Final Assembly Integration and Test Hangar chiamato anche ”Faith”, ”Fede”, secondo la miglior tradizione dei voli spaziali, molto amica degli acronimi -, dove verranno montati i nuovi veicoli della flotta aziendale.
Raccolti attorno a Branson sull’asfalto della pista, per la foto ricordo, ci sono 200 componenti dello staff Virgin Galactic, della Spaceship Company e una manciata di ingegneri di Scaied Composites, azienda produttrice di velivoli sperimentali. Hanno passato buona parte degli ultimi dieci anni a costruire il prototipo della prima aeronave di linea. Branson e l’eccentrico fondatore di Scaied Composites, Burt Rutan, si conoscono da un sacco di tempo. Rutan si era fatto un nome vendendo progetti per aeroplani dall’aspetto non convenzionale e dai nomi frizzanti il VariEz, il LongEz che piloti abili nel fai-da-te potevano costruirsi nel garage di casa, partendo dal polistirolo e dalla fibra di vetro. Ma nel 1986 diventò famoso come ideatore del Rutan Model 76 Voyager, il primo aereo che riusci a fare il giro del mondo non stop con un solo pieno di carburante. Quando Branson cominciò a costruire le attrezzature necessarie per le sue trasvolate oceaniche in mongolfiera (la prima fu nel 1987 e attraversò l’Atlantico) venne qui a Mojave a chiedere consigli a Rutan. «Burt è un genio, quando si tratta di cose tipo le capsule pressurizzate», dice.
Mentre si divertiva con le mongolfiere, Branson intensificò le ricerche di un veicolo spaziale per Virgin, e assieme a Will Whitehorn girò il mondo per vedere le potenziali astronavi. Nel 1996 venne istituito l’X Prize, che offriva dieci milioni di dollari alla prima squadra capace di costruire un veicolo riutilizzabile, in grado di portare per due volte dei passeggeri oltre la soglia dello spazio. Il premio innescò una moltiplicazione delle aziende private che promettevano tecnologie in grado di influire sul futuro del turismo spaziale. Branson e Whitehorn alla fine avrebbero preso in considerazione 50 progetti. «Ben pochi ci avevano provato seriamente», commenta Branson. «Ma non si può mai sapere...».
Nel 1999 tornò nel deserto di Mojave per esaminare Roton, il più promettente dei progetti (tra i finanziatori c’era anche il romanziere Tom Clancy, che sperava di «tagliare fuori la Nasa»). Roton era un razzo riutilizzabile alto 18 metri, con pale da elicottero, studiato per salire e scendere verticalmente nello spazio, spinto dai getti di perossido d’idrogeno che uscivano dalla punta del rotore. Costruito sotto contratto da Scaied Composites, il prototipo Roton era leggerissimo ma quasi incontrollabile, e perfino a un’altezza massima di 20 metri volava come se spenzolasse da uno spago tenuto in mano da un gigante impaziente. Branson non stette troppo a pensarci: «Aveva un’aria parecchio pericolosa». Nel frattempo Buri Rutan aveva cominciato a sviluppare in segreto i piani per una sua nave spaziale.
FAR VOLARE degli esseri umani nello spazio non è facile, e riportarli indietro è ancora più difficile. L’obiettivo dell’X Prize era quello di riuscire a raggiungere lo spazio esterno all’atmosfera terrestre, che comincia oltre la linea di Karman, cento chilometri sopra il livello del mare. È di gran lunga meno costoso, in termini di energia e di denaro, rispetto al raggiungimento dell’orbita terrestre.
L’ispirazione di Rutan era più elegante e si rifaceva a una tecnologia nata prima della Nasa, con la serie degli aerei e razzi X-Plane: con quegli aerei i piloti dell’Us Air Force avevano superato per primi il muro del suono e in seguito avevano esplorato i confini dello spazio. Lo zenith era stato raggiunto con l’X-15. Portato fino a un’altezza di 13,6 chilometri dal suolo, nella pancia di un bombardiere B-52, questo velivolo a forma di dardo risparmiava così il 50 per cento del carburante necessario e poi veniva lanciato e volava ai margini dello spazio, grazie ai suoi razzi. E alla fine tornava a terra. Ma l’X-15 aveva bisogno di essere guidato da un computer. Rutan voleva che il suo razzo andasse esclusivamente a cicche e pedaliera. La sua soluzione fu la “piuma”, un sistema che facesse ripiegare idraulicamente le ali durante il volo. E che gli permettesse di planare, lentamente e con grande stabilità, come un gigantesco volano. Con oltre 20 milioni di dollari ricevuti dal cofondatore di Microsoft, Paul Allen, Rutan si imbarcò in un programma di costruzione e messa alla prova di SpaceShipOne e dell’aereo di appoggio designato a portarlo ad altezza di lancio, il WhiteKnightOne. Si affidò a un sistema ibrido con un serbatoio di protossido d’azoto, che in meno di due minuti sarebbe riuscito a scaraventare SpaceShipOne nello spazio. Qualche mese dopo Branson volò laggiù, per cenare con Paul Allen e Rutan nella casa a forma di piramide che l’ingegnere possedeva fuori dal deserto del Mojave. «Stavo praticamente sbavando, da tanto ero eccitato», ricorda Branson. «Era un sogno che si stava realizzando. Ero determinato a far si che andasse nello spazio portandosi addosso il marchio Virgin, e avevo deciso che in caso di successo saremmo passati allo stadio successivo».
Rutan e Allen, che non nutrivano alcun interesse nei confronti di una linea di astronavi per trasporto passeggeri, e avevano in mente, molto semplicemente, di spedire la loro creatura allo Smithsonian Air and Space Museum una volta raggiunto l’obiettivo, acconsentirono a cedere la tecnologia alla Virgin. Secondo Branson non ci fu alcuna concorrenza: «Stranamente», dice, «penso che fossimo gli unici a farci avanti».
Il pilota Mike Melvill fece volare per la prima volta la SpaceShipOne al di sopra della linea Karman il 21 giugno 2004. Sette mesi dopo, quando l’aereo-razzo di Rutan compì nel giro di 15 giorni i due voli necessari per vincere l’X Prize, sulle sue code gemelle c’era il logo di Virgin Galactic.
Due giorni prima che partisse il volo inaugurale, il primo dei due validi per l’X Prize, Richard Branson annunciò la sua intenzione di lanciare un servizio di viaggi spaziali, non appena avesse avuto a disposizione il veicolo adatto. I biglietti sarebbero stati messi in vendita di lì a poco, i clienti interessati avrebbero dovuto pagare subito, a titolo di deposito, la tariffa piena. Per quanto la somma fosse interamente rimborsabile, ogni passeggero potenziale avrebbe dovuto anticipare 200mila dollari. I voli sarebbero cominciati nel 2007, parola di Branson.
Il primo dipendente a tempo pieno della nuova azienda fu Stephen Attenborough, un ex investment manager che mise in piedi una squadretta di cinque persone incaricate di gettare le fondamenta. I cinque crearono un sito web rudimentale per accogliere le richieste di prenotazione. «Benché ci aspettassimo di avere numerosi contatti», ricorda Attenborough, «non eravamo troppo sicuri di trovare la gente pronta a fare quello che proponevamo. Stavamo dicendo: guardate, non sappiamo quanto durerà questo progetto, quando verrà consegnato il prodotto e come sarà. Non sappiamo come ve la passerete a bordo, e neppure se sarete ritenuti idonei al volo perché non capiamo quali siano le condizioni fisiche richieste... Ma se volete partecipare dovete cacciare subito 200mila dollari».
Il sito crollò sotto il peso delle risposte. Attenborough cominciò a ricevere assegni da tutto il mondo, la gente si presentava di persona a Notting Hill per lasciare un deposito.
I primi richiedenti erano tutti ovviamente ricchissimi e spasimavano per avere la certezza di salire a bordo prima degli altri. I posti sui primi viaggi di Virgin Galactic furono riservati ai Fondatori, ovvero i primi compratori, il cui numero era stato limitato a cento. Questo club privato di spendaccioni avventurosi avrebbe avuto un accesso privilegiato al programma durante le fasi dello sviluppo e, al momento cruciale, sarebbero stati tirati a sorte i nomi dei primi a partire.
TORNIAMO A MOJAVE, dove la squadra di Scaied Composites cominciò a lavorare per trasformare una nave spaziale sperimentale a tré posti, che fino a quel momento aveva trasportato un unico pilota specializzato in test e 180 chili di zavorra, in un veicolo all’altezza degli standard richiesti dai clienti Virgin. Nessuno aveva mai fatto nulla di neppure vagamente simile in precedenza e Matt Stinemetze, l’ingegnere nominato Project manager del nuovo programma, ricorda che le discussioni iniziali avevano un tono molto vago. «Si tirava parecchio a indovinare sull’ordine di grandezza», dice. Perché non costruire un razzo di grandi dimensioni? O uno piccolo? Uno che avrebbe portato 11 passeggeri? 15? 20? Avevano anche preso in considerazione l’ipotesi di costruire parecchie altre SpaceShipOne, per spedire i passeggeri nello spazio, due alla volta. Ma il prototipo era un velivolo da ricerca grezzo, costruito solo per dimostrare che si poteva arrivare nello spazio senza spendere troppo, e aveva molti punti di vulnerabilità potenziali. «Se una vite cede e tu muori», spiega Stinemetze, «è un punto di vulnerabilità. C’erano cose che sarebbero state fatte diversamente, se a bordo ci fosse stata Angelina Jolie».
Stinemetze, che ha il cranio rasato a zero e al nostro primo incontro sfoggiava un orecchino e una T-shirt con la scritta “Andavo cosi veloce che i miei capelli sono volati via”, è entrato in Scaied Composites subito dopo essersi laureato in ingegneria aeronautica, nel 1998. Pilota con brevetto, ogni volta che per descrivere il processo di progettazione si riferisce alle esigenze degli spettatori paganti, ha l’abitudine di usare, ironicamente, i nomi dei più celebri tra i possessori di biglietti Virgin Galactic: «Non vorrai mica prendere Angelina e farla girare come una trottola mentre stai uscendo dall’atmosfera», prosegue. La diva di Hollywood deve essere una vera ossessione per lui: «Ma davvero Angelina si calerà con una scaletta di corda in caso di emergenza?».
LA SQUADRA BEN PRESTO capì che le necessità commerciali di Virgin Galactic e le aspettative dei passeggeri richiedevano un veicolo del tutto nuovo. Questa nave avrebbe dovuto ospitare un numero di persone sufficiente a far diminuire rapidamente il prezzo del singolo posto. Al tempo stesso, i passeggeri non dovevano essere troppi, altrimenti avrebbero litigato per avere i posti con la visuale migliore. Da Londra Stephen Attenborough faceva propaganda, discutendo con i primi clienti su ciò che avrebbero gradito. «Volevano alzarsi dai sedili, in assenza di gravita, e una delle loro grandi priorità era vedere la Terra dallo spazio», spiega. Non era un’impresa facile, nella cabina affollata della SpaceShipOne.
Il nuovo veicolo, dunque, sarebbe stato studiato per trasportare due piloti e sei passeggeri. E avrebbe avuto tanti grandi oblò. Rutan spedi Stinemetze e gli altri progettisti a Los Angeles per compiere una decina di voli parabolici a gravita zero in un Boeing 727 appositamente convertito, in modo da capire meglio come disegnare una cabina spaziale. Il resto della tecnologia (il motore del razzo, la piuma) poteva essere ricavato dal prototipo, con un adeguamento di scala. Nell’estate 2005 Attenborough cominciò a depositare in banca le caparre, 10 milioni di dollari in assegni. Nel settembre del 2006, al NextFest di New York organizzato dall’edizione americana di Wired, Branson mostrò un modello a grandezza naturale di SpaceShipTwo: un cilindro bianco e lucido con ali a delta, sedili reclinabili disegnati con curve morbide e 12 oblò. Alla cerimonia presero parte Buzz Aldrin e Alan Watts, un passeggero Virgin Atlantic di Watford che aveva messo da parte un numero di chilometri da frequent flyer sufficiente ad assicurargli un biglietto per lo spazio. Branson annunciò che i voli passeggeri sarebbero partiti nel 2009 dal New Mexico.
SpaceShipTwo, una volta completata, sarà grande almeno tre volte la sua antenata sperimentale, con una cabina di 2,28 metri di diametro e lunga 3,6 metri, metà di quella di un piccolo business jet. Ma il viaggio a bordo sarà leggermente diverso da quello che fece Mike Melvill quando divenne il primo pilota privato nello spazio.
Dopo un decollo al guinzaglio con la nave d’appoggio WhiteKnightTwo, un turbojet a doppia fusoliera con un’apertura alare di 42 metri l’ascesa fino all’altezza di lancio sarà la parte più lunga del viaggio, perché ci vorrà più di un’ora prima di raggiungere i 15 chilometri. Nel corso di quest’ora, non avendo nulla da fare se non aspettare il momento del distacco, i piloti della SpaceShipTwo parleranno ai passeggeri, grazie a cuffie senza fili, e rassicureranno gli ansiosi. «Non serviremo bevande, ne giornali da leggere», dice Dave Mackay, ex pilota da test della Raf e comandante Virgin Atlantic: ci sarà lui in cabina di pilotaggio, nei primi voli di Galactic. Una volta sganciata dalla nave-madre, la navicella spaziale perde di quota un po’, e poi, a distanza di sicurezza, il pilota accende i razzi utilizzando due levette della cabina. La prima arma il sistema; la seconda apre una valvola a sfera, rilasciando nel motore una nebbiolina fine di biossido d’azoto liquido, e attiva un anello a prova di fallimento di tre accenditori elettrici. In un decimo di secondo l’aereomissile arriva vibrando al massimo della potenza con uno stridore terribile, e il naso punta verso l’alto, verso il margine dello spazio, dove l’aria è più rarefatta. È difficile riuscire a immaginare quell’accelerazione: al momento dell’accensione i passeggeri si ritrovano schiacciati nei loro seggiolini da una forza pari a tre volte quella di gravita; Melvill dice che la sensazione che si prova è quella di essere scaraventati contro un muro di mattoni. In 12 secondi si arriva al muro del suono, in 30 a Mach 2; nel giro di un minuto, la nave spaziale viaggia a 4800 chilometri orari. «Si provano esattamente tutte le sensazioni che un astronauta prova entrando in orbita», spiega Steve Isakowitz, ingegnere aerospaziale, ex amministratore della Nasa e ora responsabile tecnico di Virgin Galactic. «Il rumore, la vibrazione, l’accelerazione sono gli stessi che proveresti all’interno dello Space Shuttle».
In quei pochi secondi, il cielo al di là del vetro della cabina di pilotaggio attraversa tumultuosamente tutto lo spettro del blu, dall’azzurro intenso della California meridionale al blu scuro e poi, all’improvviso, si fa nero. Dopo circa 80 secondi, il pilota spegne il motore e l’aereo entra nella gravita zero. I passeggeri a questo punto sono diventati astronauti. Slacciando le cinture di sicurezza cominciano a galleggiare per la cabina, ammirando il panorama: 1600 chilometri da un orizzonte all’altro, la curvatura della Terra lieve ma evidente, la linea azzurra sottile dell’atmosfera chiaramente visibile contro il nero dello spazio. Le telecamere a bordo riprenderanno ogni istante di questa esperienza, come ci spiega Mark Butier, responsabile dei preparativi di apertura di Spaceport America per conto di Virgin Galactic: «Sarà l’evento più fotografato nella vita di ogni passeggero».
E sarà anche molto breve. Al culmino dell’arco parabolico, l’aereo-razzo resterà nello spazio appena quattro minuti, prima di cominciare a tornare a terra. Il pilota posiziona “la piuma” per il rientro, e i sei passeggeri mettono i loro seggiolini in posizione distesa per poter reggere l’accelerazione (quattro-cinque volte la forza di gravita) che incontreranno rientrando nell’atmosfera terrestre. Dopo una planata di 15 minuti si ritroveranno sulla pista del deserto dalla quale erano partiti.
A sentirlo descrivere, il viaggio sembra fantastico. Emozionante, ma con sensazioni abbastanza familiari da apparire routine, quasi una corsa sulle montagne russe straordinariamente costosa, o come un bungee jumping molto, molto alto. E Virgin Galactic vanta la grande esperienza nel trasporto passeggeri e l’ottimo curriculum, in fatto di sicurezza, messo insieme in quasi trent’anni di voli. Ma questi velivoli non sono aerei di linea e andare nello spazio non è come attraversare l’Atlantico.
ANCHE SE È VISTA come un prototipo già testato, la nave spaziale SpaceShipOne prima di essere esposta allo Smithsonian ha compiuto solo sei viaggi. In due occasioni, nel corso di quei viaggi, il comandante Mike Melvill ha constatato difetti radicali e pensato che sarebbe morto. Gli ingegneri di Scaied Composites hanno progettato SpaceShipTwo nel modo più semplice possibile e stanno cercando di organizzare un programma di test sempre più intenso, per migliorarla. «Abbiamo ricavato alcune lezioni dall’esperienza di SpaceShipOne, e le abbiamo messe in pratica», dice Matt Stinemetze. «È un veicolo molto, molto migliore sotto ogni punto di vista». L’idea, dice, è quella di farne un aereo che vola come un razzo, e non viceversa. Tuttavia questa resta una tecnologia sperimentale, e qualcosa potrebbe andare storto.
Mike Melvill era nel suo ufficio all’interno del Building 75 quando sentì un gran botto provenire dall’esterno, da oltre il cimitero degli aerei. All’inizio non ci fece molto caso: Mojave si trova in un corridoio di voli supersonici, e lui era abituato a sentire l’eco degli aerei che infrangevano la barriera del suono. Ma quando quel giorno di luglio del 2007, poco dopo l’ora di pranzo, uscì sulla pista e vide una nuvola di fumo a est capì che era successo qualcosa di brutto. Pochi minuti dopo Chuck Coleman, un ingegnere strutturale che poco prima si trovava nel punto in cui si testavano i razzi Scaied, entrò barcollando nell’ufficio di Melvill. Dal suo corpo spuntavano, come frecce, lunghe schegge di fibra di carbonio. «Bisogna che lei faccia venire subito dei soccorsi», disse. Era sotto shock. «Non si rendeva neppure conto di avere quelle cose conficcate addosso», racconta Melvill.
Anche se aveva avuto luogo nel poligono di test dei razzi, tra i bunker alla fine della pista di decollo e attcrraggio, originariamente usati come depositi munizioni ai tempi in cui Mojave era una base militare, il test di quel giorno non coinvolgeva razzi o esplosivi. Gli ingegneri di Scaied che si occupavano della propulsione stavano lavorando alla sperimentazione di una nuova valvola del serbatoio di ossidazione della SpaceShipTwo, una sfera in fibra di carbonio del diametro di due metri, studiata per contenere 5500 litri di biossido d’azoto, sotto una pressione di 800 atmosfere. Il test consisteva semplicemente nell’aprire la valvola e lasciare uscire il biossido: un flusso a freddo che gli ingegneri di Scaied avevano già provato altre volte.
Erano presenti 17 uomini; prima che il test cominciasse, sei di loro si erano messi in una postazione di controllo a oltre cento metri di distanza, protetti da terrapieni e da un container, dall’interno del quale potevano osservare il comportamento del serbatoio grazie a una televisione a circuito chiuso. Il resto della squadra era rimasto li e teneva d’occhio il serbatoio da dietro una recinzione metallica, a meno di dieci metri di distanza. Qualche secondo dopo l’apertura della valvola, una reazione improvvisa provocò la rottura del fondo del serbatoio, con una forza esplosiva tale che il gas in fase di decompressione fece volare via 15 centimetri di spessore della copertura di cemento della postazione del test, proiettando frammenti di roccia e fibra di carbonio in un arco letale. Due uomini morirono sul colpo; un terzo in ospedale, per la gravita delle lesioni; altri tré restarono ricoverati per settimane. L’ingegner Charles May era tornato a lavorare per Scaied proprio quella settimana, dopo anni di assenza. Il suo amico Luke Colby dalla postazione di controllo assistè alla morte di May. «Il giorno peggiore della mia vita», dice oggi Colby.
L’INCIDENTE SCOSSE in modo particolare Rutan. Nella sua lunga carriera di sviluppatore di velivoli sperimentali e di venditore di progetti di costruzione destinati ai dilettanti, Rutan si era sempre vantato di non avere mai avuto incidenti letali. Adesso c’erano tre morti, in un solo giorno. Dopo l’incidente il sito web della Scaied, di solito arido e tecnico, fu invaso da messaggi di cordoglio, molto sentiti. Mentre gli ingegneri tentavano di capire che cosa fosse andato storto, Rutan fermò i lavori della SpaceShipTwo; e alla fine il programma rimase bloccato per un anno. L’indagine condotta dallo stato della California condannò la Scaied a pagare un’ammenda per non aver rispettato le norme di sicurezza sui luoghi di lavoro, ma non riusci a spiegare che cosa fosse successo. Poco tempo dopo Rutan fu ricoverato in ospedale per problemi cardiaci e si ritirò dal comando dell’azienda che aveva fondato.
Scaied condusse una sua indagine interna sull’incidente, chiamando esperti aerospaziali che lavoravano per Lockheed, Boeing e Northrop. Ma anche loro non riuscirono a isolare una causa singola. Così, per evitare che l’incidente si ripetesse, gli ingegneri furono costretti a riprogettare da cima a fondo il sistema di propulsione di SpaceShipTwo e a rimpiazzare il serbatoio in fibra di carbonio con uno foderato in alluminio. Non era mai stato realizzato nulla di simile, in precedenza. Mentre la costruzione e la messa alla prova del WhiteKnightTwo procedevano alla svelta l’aereo fece il suo primo volo alla fine del 2008 la squadra della nave spaziale cominciò a esplorare contemporaneamente cinque diverse configurazioni di motore e carburante. Il lavoro durò anni. «Ci fece fare molti passi indietro», ricorda Stinemetze. «Abbiamo dovuto lottare un sacco». La data di lancio di Galactic slittò dal 2009 al 2011. Il costo totale del programma, calcolato in 20 milioni di dollari iniziali, crebbe fino a 300-400 milioni.
ALLA FINE DEL 2010 Rutan annunciò che sarebbe andato in pensione. Nell’aprile 2011, dopo 36 anni passati nel Mojave, prese le sue cose e si trasferì in un ranch nell’Idaho. Nel maggio dell’anno scorso la Us Federai Aviation Administration ha concesso a Scaied l’autorizzazione a un lancio sperimentale di SpaceShipTwo. George Whitesides, ceo di Virgin Galactic ex capo dello staff della Nasa, che prima di entrare in azienda era stato uno dei primi a comprare il biglietto per un viaggio nello spazio ha dato l’annuncio dell’imminenza dei test di volo motorizzati, avvenuti poi in dicembre.
Dal momento ormai lontano in cui il marchio Virgin Galactic è entrato per primo negli annali, il mercato dei viaggi spaziali privati si è fatto via via più affollato. Xcor Aerospace, azienda con sede a Mojave formata da ingegneri reduci dal fallimento del programma Rotary Pocket, ha cominciato ad accogliere prenotazioni per voli suborbitali a bordo di Lynx, il suo futuro aereo-razzo a combustibile liquido. SpaceX dell’imprenditore americano Elon Musk sta progettando i suoi razzi e le sue capsule, e nell’ottobre dell’anno scorso quando il razzo Dragon X, partito da Cape Canaveral, ha portato rifornimenti alla Stazione Spaziale Internazionale ha chiuso con successo la prima parte di un contratto da 1,6 miliardi di dollari con la Nasa. Musk crede di poter effettuare i primi voli orbitali condotti dall’uomo nel 2015. E in Texas Jeff Bezos ha lavorato in segreto per oltre dieci anni su Blue Origin, un programma che mira a fare per lo spazio ciò che Amazon ha fatto per il commercio online.
Tuttavia Branson è fiducioso che Galactic sia anni avanti a chiunque altro. «In questo campo non abbiamo una vera concorrenza. Non potranno mai competere con noi nel portare la gente nello spazio», dice. «E le aziende spaziali che contano di riportare i passeggeri al suolo con un paracadute, usano tecnologia vecchia. Magari sono un ingenuo, magari qualcuno sta realizzando in tutta segretezza qualcosa di cui noi non sappiamo niente, ma penso che siamo avanti cinque o sei anni rispetto alla concorrenza». Nel luglio 2012 Virgin Galactic ha annunciato il suo programma commerciale di lancio satelliti. LauncherOne, un piccolo razzo portato sotto la pancia del WhiteKnightTwo, è stato studiato per spingere nell’orbita terrestre bassa piccoli carichi a pagamento, a un costo molto inferiore a quello del sistema convenzionale. E poi Branson ha in progetto di sostituire il motore ibrido della sua SpaceShipTwo con un motore a combustibile liquido, per rendere i voli suborbitali decisamente più economici e frequenti.
E per una fase successiva Branson vuole che Virgin Galactic utilizzi gli aero-razzi per viaggi da un punto all’altro della terra, fuggendo dall’atmosfera per accorciare di ore la durata dei voli intercontinentali. Ma per fare questo occorrerà avere un veicolo in grado di sostenere la velocità, le temperature e i carichi di un volo orbitale, un risultato assolutamente non alla portata di SpaceShipTwo. «Se nel giro di vent’anni riuscissimo a trasportare la gente dall’Australia a New York nel giro di un paio d’ore, io ne sarei estremamente lieto», dice Branson. «Ma sviluppare questo progetto non sarà ne facile ne economico».
E quando verrà il gran giorno in cui Branson salirà a bordo di SpaceShipTwo per il volo inaugurale con passeggeri, per lui sarà [’emozione più grande di tutta la vita. Sir Richard è convinto che la democratizzazione di questa esperienza possa essere d’aiuto a salvare la Terra. «Potremo mandare nello spazio un numero enorme di persone, e queste magari torneranno indietro determinate a fare la differenza».
Al pari di Elon Musk, Branson sogna di riuscire a mandare esseri umani su Marte. «Solo andata. Il costo del biglietto andata e ritorno sarebbe spaventoso. Avremo un sacco di volontari». Ha già fatto qualche ricerca. A ridosso del primo aprile 2008 Branson e Larry Page, dopo una serata al bar, annunciarono la nascita della joint venture Virgle: The Adventure of Many Lifetimes, che avrebbe raccolto le candidature dei pionieri del Pianeta Rosso. Qualche ora dopo rivelarono che si trattava di un pesce d’aprile. «Ricevemmo centinaia di adesioni», racconta Branson.
IN UN POMERIGGIO INVERNALE di luce abbagliante, i motori del WhiteKnightTwo gemono davanti al Building 75, al rientro dell’aereo da un volo di addestramento, con Dave Mackay ai comandi. All’interno dell’edificio una squadra lavora sotto il ventre di SpaceShipTwo, fissando il grande serbatoio di ossidazione del nuovo sistema propulsivo. Incollato al rivestimento della nave spaziale, il serbatoio occupa oltre metà della lunghezza della fusoliera, e l’installazione ha richiesto mesi. «È una cosa enorme. La faccenda più complicata degli ultimi anni», dice Stinemetze. «Ci siamo quasi».
La nave spaziale di Virgin Galactic è pronta. Per completare i test ci vorrà del tempo, ma il traguardo è finalmente in vista. «Inizia la fase con i motori dei razzi, e alla fine si andrà nello spazio», annuncia Stinemetze. Se tutto procede secondo i piani, entro un anno la prima compagnia spaziale commerciale potrebbe inaugurare i servizi in partenza da Spaceport America. In un hangar lì nei pressi, a Mojave, Thè Spaceship Company ha già cominciato a costruire il secondo spazioplano con nave d’appoggio.
Intanto si continuano a vendere i biglietti da 200mila dollari. All’inizio del 2012 Fattore Ashton Kutcher è diventato il cliente numero 500, andando ad aggiungersi al fisico Stephen Hawking, al designer Philippe Starck e alla diva di Dallas Victoria Principal. Ma non tutte le celebrità che finora hanno annunciato di voler fare un volo panoramico nello spazio hanno già prenotato.
Virgin è stata molto discreta e non ha mai rivelato la lista completa. Tutto quel che è disposta a rivelare è che, in nome della democrazia, Branson ha deciso che nessuno avrà diritto a una corsa in omaggio, a prescindere dalla fama di cui gode.