Giuliano Aluffi, il Venerdì 12/4/2013, 12 aprile 2013
VIRILITÀ. UN MITO (ANCHE) POLITICO MORTO, MA NON SEPOLTO. VEDI BERLUSCONI E GRILLO
Che cosa hanno in comune il mascellone fieramente ostentato dal Duce, gli spogliarelli maschili del film Full Monty e le riviste che promettono “addominali perfetti in una settimana”? Apparentemente ben poco. Secondo Sandro Bellassai, docente di storia contemporanea all’Università di Bologna, sono però tre tappe di una stessa storia: quella della costruzione dell’identità collettiva maschile nella nostra società. Di questo tema Bellassai, autore di L’invenzione della virilità: politica e immaginario maschile (Carocci, pp. 180, euro 17), parlerà nella quarta edizione di La storia in piazza - rassegna di incontri e convegni dal 18 al 21 aprile a Genova - dedicata, appunto, alle Identità sessuali.
Professore, quali sono stati i momenti più significativi nella costruzione dell’identità maschile nella nostra società?
“Bisogna partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, quando la tradizione perde terreno rispetto all’idea di progresso. I vecchi punti di riferimento dell’ordine sociale diventano anacronistici. E anche le identità sessuali finiscono sotto pressione. La vita diventa meno faticosa, nelle città, lontano dalla natura, si va a lavorare nelle industrie e negli uffici. E gli uomini, impossibilitati a esercitare il proprio vigore, si sentono meno virili. Devono recuperare in qualche modo. Così si assiste al diffondersi delle associazioni di ginnastica e delle palestre. Nel 1896 ci sono le prime Olimpiadi moderne e la crescente attenzione per lo sport svela il desiderio di una ricostruzione virile di un corpo che appare indebolito dal progresso”.
E proprio in quel periodo le donne iniziano a denunciare le disuguaglianze.
“Sì, il secondo Ottocento vede nascere i primi movimenti femministi organizzati. Non si tratta più di singole “eretiche”, che gli uomini possono neutralizzare: sono donne che si organizzano per denunciare l’ingiustizia di genere e rivendicare diritti, tra i quali anche quello di voto”.
E questo spaventa gli uomini?
“Li terrorizza. Così germoglia quella ideologia che io chiamo virilismo novecentesco, cioè l’idea di rilanciare i tratti essenziali della mascolinità: la forza, il coraggio, la disposizione al comando. I linguaggi politici attingono a un immaginario sociale che ha anche forti connotati sessuali. Il rilancio della virilità collettiva diventa un mezzo per mobilitare il consenso. In Italia, poi, il fascismo fa di questo rilancio un programma politico nazionale esplicito: vuole ridare autorità alla figura maschile all’interno della famiglia, espellere le donne dal mercato del lavoro, restituire carattere guerriero ai maschi italiani. Gobetti diceva che il fascismo era l’autobiografia della nazione. Io, parafrasando, dico che l’autobiografia della nazione è il virilismo. Basta pensare alle magliette “Italians do it better” diventate fenomeno di costume con Madonna. Poi ci sono il mito del bagnino romagnolo, del latin lover, una serie di riferimenti più o meno mitologici, più o meno frivoli, ma sempre nella stessa direzione: di un primato italiano dal punto di vista virile”.
A occhio e croce, un primato piuttosto illusorio...
“Quel virilismo, quella scommessa politica basata sull’idea di una gerarchia dei generi naturale viene comunque persa negli anni Sessanta e Settanta. Il boom economico rimodella lo scenario etico della nazione, il femminismo negli anni Settanta fa passi da gigante e per la prima volta nella storia si frantuma anche il “fronte interno” degli uomini, perché molti maschi illuminati fanno proprie le rivendicazioni femministe. Da un certo punto in poi non è più possibile sostenere che le donne debbano stare a casa, non possano fare l’università, o, come si diceva ancora fino al ’63, non possano entrare in magistratura perché i loro “isterismi” condizionerebbero i processi”.
Quindi il virilismo sparisce?
“Diventa un “virilismo informale”, più obliquo. Il privilegio maschile continua - basta guardarsi attorno per vedere un mondo dove il genere maschile ha ancora le chiavi di molte dinamiche sociali ed economiche - ma non ha più la legittimazione retorica indiscutibile che aveva prima. Non si crede più alla favola di una gerarchia di genere dettata dalle leggi naturali e gli uomini, privati del mito della loro superiorità, restano smarriti. Negli anni Ottanta e Novanta i media espongono questo smarrimento, questa nudità...”.
Per esempio?
“Per me un momento cruciale di questo processo è rappresentato dal film Full monty del 1997, dove si mette in scena non soltanto uno spogliarello, ma anche la nudità politica dei maschi. I protagonisti sono operai che hanno perso il lavoro e quindi hanno fallito nella loro identità maschile di padri e mariti. Questi uomini sono ormai nudi. E però giocano, con una specie di geniale mossa del cavallo, su questa nudità: si espongono, nudi anche nel loro corpo, allo sguardo femminile. C’è un rovesciamento: si scoprono oggetti del desiderio, non più soggetti desideranti. Il film è una sintesi efficace di quanto succede negli anni Ottanta e Novanta dopo la débâcle del virilismo. E la diffusione, anche in Italia, di riviste come Men’s Health, mostra l’affermarsi di un mercato per maschi in cerca di rassicurazioni. Il latin lover o il bagnino romagnolo di trent’anni fa si sarebbe vergognato di ricorrere a un “pronto soccorso virile” che svela “i dieci segreti per farle impazzire a letto”.
Ma il virilismo classico è davvero morto?
“Sì, ma non è stato sepolto. E quindi continua a circolare sotto forma di spettro. È quello che succede nella nostra società, nella nostra politica. Molti maschi italiani, nel loro profondo, trovavano rassicurante l’idea che Berlusconi, a settant’anni suonati, si producesse nelle maratone notturne del bunga-bunga. E ci sono esempi ancora più attuali. Pensiamo alla spettacolarità della leadership di Grillo: quando passa sopra la folla dei suoi comizi sul canotto è come se la penetrasse. Vengono in mente analisi come quelle del sociologo Scipio Sighele, che ravvedeva un carattere “femminile” nella folla. Grillo è anche quello che ha attraversato a nuoto lo Stretto di Messina. C’è chi ha pensato alla nuotata di Mao, o a Mussolini che trebbiava il grano a torso nudo. È comunque un gesto che segna una leadership maschile. Anche una donna avrebbe potuto attraversare lo Stretto a nuoto, ma che lo abbia fatto un uomo suona come una prova di virilità. E che quest’uomo abbia superato i sessant’anni suona ancor più rassicurante”.