Alberto Melloni, Corriere della Sera 12/04/2013, 12 aprile 2013
E COSI’ LA CHIESA PRESE IL LARGO
La portata della svolta segnata dalla elezione di papa Francesco è ciò che tutti stanno scrutando, in questa nuova transizione che invera l’espressione sulla Chiesa «pellegrina», così indigesta agli ideologismi d’opposto segno sul «bimillenario potere» romano. Oggi riaffiora però non solo la blasfema riduzione della Chiesa a potere (da ammirare, usare, rintuzzare) che è così tipica dell’analfabetismo religioso italiano. Ritorna anche un antico vizio ipercattolico: il timor panico che la Chiesa cammini davvero nella storia e il disagio ogni qual volta essa celebra svolte effettive. In queste settimane, nelle quali papa Bergoglio ha dato il senso che davvero il Vaticano II continua a essere il punto di unità e di fecondità della Chiesa, la confusione fra continuità della professione di fede e identità di vedute torna prepotente in scena, nel carnevale dei bergogliani dell’ultima ora.
Il problema non si pone per la prima volta nella storia recente. Il «papato europeo» di Wojtyla e Ratzinger non ha infatti temuto di scartare netto rispetto a Paolo VI e, in polemica frontale con le sue presunte «debolezze», ha scelto lo spazio pubblico europeo e una politica dottrinale negativa come il luogo dove misurare il vigore della Chiesa. Benedetto XVI ha saputo misurarsi da par suo con il bilancio di questa scelta e ha deciso che l’esaurirsi del suo personale vigore potesse e dovesse chiudere quella fase, spentasi nel clima cupo dei Vatileaks. Ma anche prima il papato di Roncalli, che per molti versi assomiglia a quello di Bergoglio, si era misurato con una svolta non meno netta rispetto all’era pacelliana.
Non è un caso che un acuto osservatore come don Giuseppe De Luca vedesse attorno a Giovanni XXIII, pochi mesi dopo l’elezione, un clima torbido di cui scrisse all’arcivescovo di Milano Montini, che della precedente corte era stato la vittima più illustre: «La Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato non accenna a mutare come pareva che dovesse pur essere alla fine. Il cerchio dei vecchi avvoltoi, dopo il primo spavento, torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette. Intorno al carum caput quel macabro cerchio si stringe. Si è ricomposto, certamente». Appena eletto Papa, Giovanni XXIII gli avvoltoi li aveva provocati, facendo subito Montini cardinale. Un gesto che il carteggio Roncalli-Montini (ora ripubblicato da Studium con il titolo Lettere di fede e amicizia, a cura di Marco Roncalli, con cento missive in più rispetto a quelle scoperte nel 1982 da monsignor Capovilla, grazie agli archivi di Paolo VI finalmente accessibili) colloca in una amicizia tutta ecclesiastica.
Le lettere di Roncalli sono coerenti al suo stile, che dissimula e smussa. Le lettere di Montini ovviamente non hanno invece nulla da dire sul problema del suo rapporto da Papa con un predecessore che avrebbe messo a mal partito chiunque e perfino l’uomo che cercava di diventare il protagonista di una riforma dall’alto e che è invece è stato il custode solitario di una semina evangelica che, come si vede, ancora fruttifica. L’epistolario ci offre qualche sprazzo d’un rapporto che vede due carriere diplomatiche intrecciarsi quando, fra il 1954 e il 1958, l’arcivescovo di Milano senza porpora e il patriarca di Venezia convivono nell’embrione della Cei, dominato dalla prepotente linea del cardinale Siri.
Un legame che sarebbe sbagliato ridurre a una generica matrice lombarda, che c’è, ma fa torto agli orizzonti cui guardano i due protagonisti. Da quello piccolo dell’Italia, dove lo sforzo roncalliano per allargare le sponde del Tevere e quello montiniano per fidelizzare la Chiesa alla democrazia si intrecciano, alle spalle dei sogni reazionari di tanti cardinali. A quello grande del Concilio, nel quale Montini vede rischi e incertezze che non diventano resistenza. D’altronde perfino monsignor Capovilla (il segretario di Roncalli al quale vari Papi hanno perso l’occasione di dare la porpora) ancora l’11 ottobre scrive nel suo diario: «Non sono tranquillo. Non vedo chiaro circa l’avviamento, la serietà, la profondità dei lavori. Son convinto che la Curia ha cercato di impadronirsi del Concilio per farne una specie di congresso. Molti non credevano che si sarebbe celebrato. E ora che ci siamo lo vogliono ridurre a un avvenimento giuridico». E quando l’11 ottobre arriva la lettera «angosciata» di Montini, che chiedeva un «piano» per il Vaticano II, ne condivide la preoccupazione. Essa però non sfiora Roncalli, che con un atto primaziale non fa partire un aereo che Paolo VI riporterà a terra, ma obbedisce al comando meno citato e più impegnativo di Gesù a Pietro: «Prendi il largo».
Alberto Melloni