Giuseppe Scaraffia, Sette 12/4/2013, 12 aprile 2013
COSA INSEGNANO I FRANCESI DIVENTATI PIÙ IGNORANTI
«Adesso è pieno di francesi che hanno preso la maturità perché non è più un esame duro. Ci vogliono più maturità? Basta abbassare il livello! È qui che si vede a che punto il sistema è perverso. La nostra società soffre di un abbassamento generale del livello d’intelligenza, anche se è un fenomeno difficilmente misurabile». Ascoltavo stupito, perché a parlare così non era un professore pignolo, ma un ribelle, un libertino dichiarato e conseguente: Alain Robbe-Grillet, il guru del Nouveau Roman.
Era il 2002 e non sapevo quanto il suo grido d’allarme fosse profetico. Oggi, a più di dieci anni di distanza, la “perversione” del sistema educativo francese è compiuta. Ad affossarlo definitivamente è arrivato il ministro socialista dell’Education Nationale, Vincent Peillon. In questi dieci anni la Francia aveva comunque continuato a detenere un record: uno studente su tre bocciato, contro l’uno su sette del resto dell’Ocse. Il che significava, per la Francia, avere ancora una scuola decorosa. Ma troppo costosa: due miliardi di euro che gravano sulle casse dello Stato. Constatando la fragilità scolastica di un alunno su quattro, il ministro ha fatto passare un emendamento secondo il quale la bocciatura è diventata solo una soluzione estrema, da applicare il più raramente possibile. Mi sembra ancora di sentire la voce di Robbe-Grillet: «Ho studiato negli Anni 20 e 30. Allora non si chiedeva ai ragazzi cosa volevano imparare, perché si sapeva bene che la pigrizia naturale li avrebbe spinti a non imparare nulla. C’era una sorta di dovere di imparare. Tutti i ragazzi dotati per lo studio dovevano fare obbligatoriamente latino e greco. Così si imparava a leggere nelle lingue classiche, cosa che ancor oggi riesco a fare. Certo era difficile».
Il tabù della difficoltà. «Oggi», continuava Robbe-Grillet, «si pensa che non si debba sovraccaricare la mente degli scolari con cose difficili. Credo sia un grave errore. La mente umana si sviluppa solo quando si trova un po’ al di sopra delle sue facoltà. Mentre adesso si vive sempre al di sotto. C’è un livellamento di base». In dieci anni il livellamento si è ulteriormente esteso e assestato verso il basso. In un mondo in cui ogni status symbol sembra ormai materialmente alla portata di un clic, non si sa più cosa voglia dire mettersi alla prova, faticare per ottenere uno status reale e non simbolico. Difficile e faticoso sono due parole tabù per la modernità, dove il consumismo ha indotto a credere ogni oggetto del desiderio accessibile senza sforzi. Mentre purtroppo non è così. Essere promossi senza avere studiato adeguatamente contribuisce a questa percezione alienata e distorta della realtà. E inoltre mortifica ulteriormente l’intelligenza, disabituandola a discernere il rapporto di causa ed effetto e accentuando quindi lo svantaggio di chi già era, per dirla con il ministro Peillon, “più fragile”.
Intendiamoci, sarebbe ipocrita scandalizzarsi per una svolta legislativa che si limita a codificare un comportamento ormai diffuso ovunque nel mondo, e da noi più che mai. Nel nostro Paese gli studenti che arrivano all’università non solo hanno una formazione di base molto ristretta, nell’imperare della prevalente cultura visiva, hanno letto pochissimi libri e hanno quindi una padronanza limitata dell’italiano, ma hanno anche una soglia e una durata di concentrazione pari a quella dei videoclip o della pubblicità, il loro tempo è crivellato dagli squilli del cellulare e dai bip dei social network. Soprattutto, nessuno ha contemperato questa evoluzione epocale della struttura della mente delle nuove generazioni insegnando loro quel suo particolare impiego, non alternativo e non inutile ai precedenti, che chiamiamo studiare. «L’educazione morale non è un dressage, non è addestramento», ha dichiarato Peillon. E invece sì. Senza addestramento non c’è educazione. La scuola, oltre a trasmettere contenuti irrinunciabili, è anche tenuta a formare gli allievi attraverso una disciplina interiore e un allenamento alla concentrazione e all’analisi che altrimenti mancheranno per sempre. Studiare è difficile come la vita: un dato che nessuna riforma può cambiare. Ma nel diffuso disaccordo che regna tra i Paesi e i partiti europei, c’è un unico, solido punto di consenso che accomuna le loro riforme dell’istruzione pubblica: la riduzione progressiva dei costi. È un testimone che i diversi governi si passano con disinvoltura.
Il risultato di questa politica sono i “derivati culturali”, i finti laureati, prodotti menzogneri dell’istruzione come quelli bancari lo sono della finanza. Quando le statistiche riportano dati allarmanti sulla disoccupazione giovanile, sembrano non tenere conto della “tossicità” dei titoli di studio: in molti casi non corrispondono al valore attribuito, ma derivano dai pasticci “creativi” con cui i governi impongono agli insegnanti condizioni impossibili di dare-avere. In un circolo vizioso, i finanziamenti vanno alle università che sfornano più laureati, come se non fossero cittadini ma merci. Chi ne soffre di più sono proprio loro, i laureati-derivati, incolpevoli e inconsapevoli, frustrati, se non disperati, a vedere che il mondo non dà loro il controvalore dei loro titoli. Un valore nominale gonfiato di cui nessuno sembra chiamato a rispondere.
NELLA CLASSIFICA FRA I 15ENNI OCSE VINCONO I KAZAKI IL PIACERE DI LEGGERE UN LIBRO? FRANCIA E ITALIA TRA GLI ULTIMI –
Teenager italiani, e ancora di più francesi, stracciati da kazaki, albanesi, cinesi (di Shanghai, in particolare) e tailandesi. Leggere ogni giorno per il piacere di farlo – e non soltanto per dovere scolastico – è un indicatore importante nella qualità della crescita culturale degli studenti? L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico pensa di sì. E infatti, sin dal 2000, ha inserito questa “voce” nella ricerca Pisa, che sta per Programme for International Student Assessment ed è l’indagine internazionale promossa fra gli studenti quindicenni di 67 Paesi per accertare i risultati dei sistemi scolastici e metterli a confronto fra loro. Bene: gli ultimi dati raccolti (il sondaggio è triennale, ed è appena partita la raccolta informazioni nuova edizione) indicano che la scelta di aprire liberamente un libro viene fatta soprattutto in Paesi su cui sarebbe più difficile scommettere: a parte quelli già citati all’inizio, che guidano alla grande la hit intorno a quota media 90%, alle loro spalle spiccano – abbondantemente sopra la media Ocse, che è del 73% per le femmine e del 54% per i maschi – Kyrgystan, Indonesia, Perù e Taiwan. Anche questi sono in discesa rispetto alla prima edizione (in crescita ci sono poche eccezioni, come Canada, Grecia, Giappone e Bulgaria), ma, insieme a Stati come Turchia, Colombia e Polonia, sempre varie spanne sopra l’Italia, che è al 38° posto intorno al 70%, e alla Francia, al 46°, appena sopra al 60%. Molto più giù Stati Uniti e Giappone, peggio dei quali “stanno” soltanto Austria e Lichtenstein, dove appena il 37% dichiara di leggere un libro solo per passione e non per dovere. Ma non è una gran consolazione, né per noi, né per i francesi.