Francesca Pini, Sette 12/4/2013, 12 aprile 2013
IL TYCOON CONFESSA: VORREI COMPRARMI MONNA LISA
Il massimo del prestigio, oggi, per un tycoon cinese non è più solo vantare un’importante collezione di opere (antiche o contemporanee, sempre molto su base nazionale), ma costruirsi un museo privato dove esporla. E se pensiamo che oggi, in quel Paese, si contano circa 500 miliardari (con una crescita del 20% annuo) si schiudono prospettive auree. La Cina, da fine Anni 90, sta costruendo il proprio sistema dell’arte, giocando la carta “soft” della cultura per controbilanciare l’immagine del suo strapotere economico, puntando a una leadership in questo contesto globale. Così come fu nel XX secolo, negli Usa, quando allo sviluppo economico si aggiunse l’energia della loro cultura, che plasmò interessi e desideri del mondo. «Qualcuno dubita che la Cina non avrà un ruolo primario in questo ambito?», dice Philip Dodd, presidente del comitato della fiera Art 13, che ha invitato a Londra tre collezionisti di alto profilo, proprietari di musei, a parlare della loro esperienza. «Se ci sono “soluzioni” alla crisi culturale che sta travolgendo l’Europa, è probabile che arrivino da lì. Questi musei (non gravati da modelli precostituiti) stanno contribuendo a inventare il futuro, che può essere in parte quello dell’Europa».
Vedo rosso. Wang Wei, moglie del noto imprenditore Liu Yiqian, nel dicembre 2012, ha inaugurato a Shanghai il suo Long Museum. E a fine anno farà il bis con quello che sorgerà a Xuhui (solo arte contemporanea), invogliata dallo stesso governo, che “autorizza” questi musei privati affinché si assumano rischi che quelli statali non corrono, creando modelli di sviluppo pubblico e proponendo arte d’avanguardia. Al Long Museum (progetto costato 300 milioni di Rmb e altrettanti ne verranno spesi per il secondo), si procede per strati secolari. A pianterreno il contemporaneo (dagli Anni 80), al secondo piano la pittura “rossa” (1949/1979), del periodo della Rivoluzione (una raccolta davvero unica), al terzo meravigliosi pezzi antichi. Come quella giada imperiale cinese che il marito reperì in Giappone per una cifra colossale, pagando poi anche una pepata tassa d’importazione (30% del valore). L’arte di questo Paese si è sviluppata lungo millenni. E oggi i cinesi sono pronti a spendere qualsiasi somma (il giro di affari è stimato in 10 miliardi di dollari annui) pur di rimpatriare oggetti antichi del loro patrimonio culturale, andato disperso (alle aste europee sono stati battuti oggetti per cifre da capogiro, negli ultimi tre anni), e per loro è anche una responsabilità sociale farlo. Nel 1860, le razzie dei soldati francesi e inglesi spogliarono il palazzo imperiale, che si impoverì ulteriormente con altre vendite fatte dall’ultimo imperatore Pu Yi, dal 1911 in poi. «Mio marito e io abbiamo raccolto opere di generi molto diversi», dice la signora. «Io amo i soggetti rivoluzionari e l’arte contemporanea, lui la pittura e la porcellana antica. Così la nostra collezione ha due anime. Siamo fieri d’investire nella cultura per trasmettere alle generazioni future un patrimonio così importante». Dai Zhi Khang (costruttore, fondatore del potente gruppo Zendai a Shanghai) sottolinea: «La Cina non dovrebbe concentrarsi solo sul “fare i soldi”, ma anche promuovere un’educazione estetica. Come collezionisti privati abbiamo il compito di diventare una forza trainante di questo processo. Noi sopravvissuti alla Rivoluzione culturale non vogliamo più perdere le nostre radici, ma ritrovarle. Il dialogo tra civiltà cinese e occidentale è essenziale. In questo senso la mia prima esperienza formativa la ebbi andando alla Tate e al Pompidou, “studiando” le loro collezioni. Se potessi comprerei la Monna Lisa! E il mio “Museo Himalaya” (che aprirà il 10 giugno) sarà un ponte», dice Dai, che si è spinto ad acquistare un dipinto occidentale, un Van Dyck, comperato negli Usa. «Ci vorranno ancora anni prima che i collezionisti cinesi decidano di acquistare opere di artisti internazionali», dice Li Bing, che ha studiato all’Accademia di Belle Arti, ma ora è un imprenditore del te. A Pechino ha aperto il suo He Jing Yuan Art Museum e l’Art Club, punto di incontro tra artisti, critici e collezionisti come lui (di ventennale esperienza). L’interesse e il gusto per l’arte occidentale penetrerà in seconda battuta. Però sul mercato delle aste newyorchesi, nel maggio 2010, un cinese si è già fatto notare aggiudicandosi, da Christie’s, quel Picasso (Nude, Green Leaves and Bust) per 106,5 milioni di dollari. Negli ultimi due anni, dopo il grande boom speculativo, il mercato dell’arte contemporanea cinese ha registrato una flessione notevole (del 35% dal maggio 2012), ma quest’anno dovrebbe rialzarsi del 43%. «I collezionisti hanno investito molto, spesso puntando solo sui “nomi” di fama, e non guardando invece all’essenza di un lavoro, così abbagliati hanno perso denaro. Tuttavia se uno ha veramente fiducia in quello che fa, dedica tempo alla propria raccolta, comperando opere che toccano le corde del cuore, non sbaglierà colpo», dice Li Bing. «Ma se si vuole strutturare in Cina un sistema di musei occorreranno almeno due decenni. Bisogna formare esperti che studino all’estero, per poi ritornare qui con idee propositive. E bisogna soprattutto educare e far crescere un pubblico».