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 2013  aprile 12 Venerdì calendario

L´OLONESE E IL RISCHIO REVIVAL

Giorgio Napolitano parla spesso. Nel suo sermonario le «larghe intese» ricorrevano con tale frequenza da lasciare indifferente l´ormai assuefatto uditorio, ma lunedì 8 aprile 2013 l´effetto è shocking. Nel Senato, Sala Zuccari, commemora Gerardo Chiaromonte, suo compagno d´una fila minore nel Pci: e rievoca l´anno 1976, quando Enrico Berlinguer apriva un dialogo con la Dc nell´Italia insanguinata dal terrorismo; anche allora ci voleva del coraggio. Non sorridiamo come d´innocui paradossi: è storia ad usum Delphini (un Delfino bevitore ignorante) che nei calcoli d´alchimia governativa Silvio Berlusconi 2013, visto dal Pd, sia politicamente comparabile ad Aldo Moro 1976; discorso assurdo e poco decoroso, sia permesso dirlo, visto che nessuna prerogativa sottrae gli oracoli quirinaleschi al vaglio storico (vedi Massimo Giannini, qui, 9 aprile). Dio sa come, nell´uomo d´Arcore variamente denominabile (Caimano, Olonese, Re Lanterna, Berlusco Magnus, e via seguitando) G. N. vede uno statista: gli promulgava leggi manifestamente invalide; in una aveva addirittura messo mano, garantendogli l´immunità processuale; e nell´obbligarlo a dimettersi perché dopo due legislature d´allegra bottega l´Italia andava in malora, l´ha subito riqualificato partner d´una maggioranza discorde, donde le attuali perversioni, mentre l´ovvia via d´uscita sarebbe stata sciogliere le Camere. Assiduo pedagogo, non s´era accorto dell´anomalia d´avere al governo un plutocrate dai mille interessi, visibili e occulti, padrone della macchina mediatica con cui falsa i fondamentali della politica (mistifica i fatti, disinnesca il pensiero, soffia sulle midolla), senza contare gli episodi criminali emersi, né ha mai rilevato la maniera in cui occupava i luoghi del potere puntando a una signoria definibile gang monocratica. Gravissime patologie e in sette anni non abbiamo raccolto una sola sillaba.
L´allocuzione 8 aprile ribadisce quanto sapeva chiunque abbia occhi aperti e buona memoria, con un quid pluris: suona l´outing; succede quando chi parla viene allo scoperto deponendo ogni cautela. Corrono momenti cruciali: siccome dalle urne sono uscite tre minoranze sinora non componibili, siamo ancora in attesa del nuovo governo; da sei settimane la res publica versa in una stasi paragonabile all´apparente immobilità del sole nei solstizi (il nome latino è «iustitium»); e va eletto un Presidente della Repubblica. L´unico accordo ragionevolmente pensabile sta in re ipsa: Pd e M5S ma le Stelle lo rifiutano; uscite dal niente, vogliono pigliare tutto. Salta fuori il pirata redivivo, secondo nella terna d´antagonisti, e l´offerta d´una partnership trova ascolto in angoli del Pd. La componente ex comunista, cinicamente pragmatica come lo sono preti atei, non aveva pregiudiziali in materia: l´orrendo capolavoro bicamerale rimette in piedi l´Olonese sconfitto (febbraio 1997-giugno 1998) in omertosa solidarietà, donde otto anni e mezzo d´un potere banditesco; e saremmo sudditi suoi se eventi esterni non l´avessero rovesciato, incombendo la bancarotta. Ma l´uomo ha un sèguito, radicato in pulsioni profonde, quindi riappare. Musicanti e coro chiamano all´union sacrée. Nella corsa al Quirinale quel Bicamerista figura tra i suoi benvoluti, pour cause. Che aria tiri, lo dicono cronache dei negoziati: s´incrociano i due Letta, zio e nipote; segnali perentori vengono dalla parte postdemocristiana. Lì tiene banco l´ex segretario, mancato presidente della Camera: due mesi fa paragonava l´Italia berlusconiana a Gotham City, buia metropoli infestata dalla malavita contro cui combatte Batman in duello col perfido Joker; e inorridiva all´idea-incubo d´un revival. Belle metafore ma sotto barba fluente, risulta convertito ad divum Berlusconem: tanta gente lo vota; sta bene, quindi, convolare in un governo che, rianimando l´economia, riformi lo Stato (florilegio in M. Travaglio, «Il Fatto quotidiano», 9 aprile). In tale atmosfera l´outing dal Quirinale vuol essere determinante; falsi equidistanti l´aspettavano: «perché rinunciare a un simile presidente?», esclama uno dei più canori (E. Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 31 marzo).
L´essenziale è presto detto: se vogliamo affossare il Pd, le «larghe intese» vanno benissimo; governo a due significa «Berlusco triumphans». Sa d´esca forte il patronato del malaffare (evasione fiscale comoda, corruzione, larghi spiragli d´impunità). Molti elettori, poi, amano gli spettacoli d´una forza impudente e qui ne scorre tanta: vedi i dibattimenti dove manca solo l´atto finale, avendoli trascinati la difesa in forma derisoria; da anni sarebbero finiti, nello scrupoloso rispetto delle regole, se l´imputato non fosse Silvius Magnus. In posa erculea, li tiene sospesi: è più forte lui; gli aficionados vanno in estasi e la persistente fortuna alimenta nel protagonista una sindrome megalomaniaca. Non era mancato l´ammonimento dal Colle, puntualissimo. L´ex democristiano dialogante sorvola sul fatto che rianimare l´economia sia un volo nella luna quando uno dei due partners (dominante: l´altro s´infama stando lì) cova il mercato nero dei corruttori e corrotti, con un danno collettivo quantificabile in sessanta miliardi l´anno. Passando alle riforme, eccone tre, molto berlusconiane: pubblico ministero agli ordini del governo (al diavolo l´azione penale obbligatoria); presidente del consiglio padrone delle Camere (se non gli ubbidiscono, le sbanda); conflitto d´interessi selvaggio e nessuno fiati (norme severe castigheranno i dissensi sotto il nome «vilipendio», e una magistratura disciplinata picchi duro). A proposito della Gotham City, dava spettacolo triste Ruby sulle scale del Palazzo milanese, sotto cartelli rivendicanti l´onore femminile: «non sono una prostituta»; e chiedeva scusa «a Silvio», d´avergli raccontato d´essere nipote del premier egiziano. Mascherate simili dicono tutto sulle categorie estetiche d´Arcore. Lasciamo da parte l´etica, materia lagnosa fuori corso.