Francesco La Licata, La Stampa 12/4/2013, 12 aprile 2013
L’ANTICO VIZIO DI SENTIRSI IL PIU’ ANTIMAFIA DI TUTTI
Dice, Antonio Ingroia, di non riuscire a trovare - nei suoi comportamenti recenti e passati - un solo motivo che giustifichi tanta aggressività manifestata nei suoi confronti. Ma non specifica, Ingroia, se è pentito o no di aver intrapreso la strada della politica. Già, perché è proprio questa la domanda alla quale il magistrato dovrebbe trovare risposta, tenendo conto di un bilancio che ormai dovrebbe poter calcolare con qualche facilità.
È stata la scelta giusta, quella di imbarcarsi in una competizione politica arroventata dal particolare momento di difficoltà, decidendo di vestire addirittura i panni di leader, di capo di un movimento che pretendeva di competere con la disinvolta aggressività del popolo dei grillini? È stata saggia la decisione di entrare in partita senza un gesto netto di separazione dalla sua precedente attività professionale? Chissà se rifarebbe le stesse cose, il «pubblico ministero per antonomasia».
È fatto così, Antonio Ingroia. Diciamo che gli accadimenti siciliani lo hanno sempre messo in condizione di trovarsi al centro dell’attenzione mediatica, alimentando un tantino la sua naturale attitudine all’egocentrismo. E alla conseguente «consapevolezza» di avere qualcosa in più rispetto alla norma. Chi ha frequentato il Palazzo di giustizia di Palermo - per eccellenza sede di veleni di ogni tipo - ha avuto modo di ascoltare sfoghi, più o meno interessati, di magistrati impegnati nel lavoro sulla bassa manovalanza mafiosa, a differenza di Ingroia che si occupava soltanto dell’alta mafia, quella politica soprattutto. Era considerato il «pupillo» di Giancarlo Caselli, dopo essere entrato al «Palazzaccio» come il giudice ragazzino tanto amato da Paolo Borsellino.
Eppure sarebbe ingeneroso liquidare il lavoro di quella «squadra» in modo sbrigativo. Senza quel cambiamento la lotta alla mafia sarebbe ancora all’anno zero e il preziosissimo contributo di Falcone e Borsellino forse sarebbe andato irrimediabilmente disperso. Ma era la toga da pubblico ministero la corazza che rendeva Ingroia una sorta di simbolo della resistenza alla mafia e al malaffare. Una difesa che poggiava anche sul cosiddetto «consenso popolare» verso un gruppo di magistrati sempre in prima fila. Ma anche sempre in prima pagina. E ogni giorno sempre più politicizzato dalla naturale spinta prodotta dall’eccesso mediatico.
Così il giudice si è trasformato lentamente nel politico. Ma ciò che può essere consentito all’eroe con la toga non è detto sia «perdonato» al neo-rappresentante della casta che aveva combattuto fino a qualche settimana prima con le armi delle inchieste.
Forse si è fatto male i conti, Ingroia. Ha ecceduto nella sopravvalutazione di se stesso, probabilmente tratto in inganno anche dalla corte di amici e fan che gli han fatto credere di poter contare su forze maggiori di quelle che erano in realtà. Ed oggi si trova in palese difficoltà. Costretto a parlare di nuovo come magistrato, dopo la pausa elettorale, dove lo si è visto persino scherzare con Berlusconi e Dell’Utri, i protagonisti di uno dei suoi processi. Troppa commistione dei ruoli, forse, non aiuta nella comprensione l’elettorato. Non l’hanno aiutato neppure gli attacchi ai colleghi candidati in altri partiti, come se la demonizzazione dell’avversario potesse aprire la strada alla vittoria. Ma quello di demolire «tutti gli altri» sembra essere un vizio antico dell’Antimafia: nelle polemiche siciliane non esiste chi la pensa in un modo e chi in un altro, esistono i buoni e i cattivi, gli eroi e gli amici del giaguaro. Persino chi ha avuto la fortuna di rimanere vivo, prima o poi, si trova nella posizione di dover giustificarsi per non essere stato ucciso.
In un certo senso, Ingroia perpetua un antico vizio: quello di poter fare ciò che ad altri non è consentito perché «se lo faccio io è sicuramente per il bene di tutti». Cosa ha risposto al Csm? «Preferiscono mandarmi ad Aosta a riscaldar la sedia, piuttosto che concedermi di svolgere un ruolo importantissimo nelle esattorie siciliane». Non si capisce perché amministrare giustizia ad Aosta dovrebbe essere una «diminutio» per Ingroia (ma questo glielo faranno notare i colleghi valdostani), e un lavoro «alla sua altezza» fare l’esattore in Sicilia. A meno che non si voglia affermare la necessità, esclusivamente mediatica, di affidare all’antimafia quello che è stato gestito prima dai mafiosi Ignazio e Nino Salvo. Ma ciò sarebbe solo propaganda.