Antonio Maria Mira, Avvenire 12/4/2013, 12 aprile 2013
BONIFICHE SCANDALO, QUEI LAVORI INFINITI
«Il settore bonifiche, almeno fino ad oggi, è stato fallimentare». È una bocciatura su tutta la linea quella che la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, ha affidato ad una relazione specifica. E già il titolo la dice lunga sul contenuto. ’Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia: i ritardi nell’attuazione degli interventi e i profili di illegalità’. Eppure da 14 anni c’è una specifica norma, il decreto ministeriale n. 471 del 1999, che fissa le procedure per l’effettuazione delle bonifiche. Risultati? Fallimentari, come giustamente denuncia la Commissione ’Ecomafie’. In particolare per i 57 Sin (Siti di interesse nazionale), le aree ad altissimo inquinamento, che proprio per questo richiedono interventi e finanziamenti nazionali. Ebbene di questi 57, sparsi in tutto il territorio nazionale (non si salva nessuna regione), compresi nomi ben noti come Bagnoli, Taranto, Porto Marghera, Priolo, Gela, Brindisi, Mantova, Piombino, Trieste, Brescia, solo uno è stato completamente bonificato, anche se con qualche spiacevole ’sorpresa’ (vedi altri articolo). Si tratta dell’Acna di Cengio, vero ’mostro’ della chimica che in più di un secolo di attività aveva ucciso un fiume, il Borbida, e un vastissimo territorio tra Liguria e Piemonte. Ora quell’area è stata ’ripulita’. Ma solo quella. «All’esito dell’inchiesta della Commissione – prosegue il j’accuse dell’’Ecomafie’ –, il quadro risulta desolante non solo perché non sono state concluse le attività di bonifica, ma anche perché, in diversi casi, non è nota neanche la quantità e la qualità dell’inquinamento e questo non può che ritorcersi contro le popolazioni locali, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista economico». Poi passa ad analizzare i Sin che «coprono una superficie corrispondente a circa il 3 per cento del territorio italiano», oltre a 330mila ettari di aree a mare. Un pericolo reale. «Sebbene il riconoscimento quali Sin – prosegue l’accusa – per taluni di essi sia avvenuto diversi anni fa (talvolta anche oltre dieci anni fa), i procedimenti finalizzati alla bonifica sono ben lontani dall’essere completati».
Non che non si sia ’lavorato’, ma lo si è fatto solo sulla carta. Il quadro che ne fa la Commissione fa cadere le braccia. «A fronte di questo evidente insuccesso del sistema, numerosi sono stati i soggetti, pubblici e privati, che hanno operato nel settore, numerose le consulenze conferite per questa o quella analisi, gli affidamenti di servizi per le opere di progettazione, di caratterizzazione, innumerevoli le conferenze di servizi interlocutorie e decisorie che hanno scandito, per lo più senza costrutto pratico, le varie fasi delle bonifiche dei Sin, in un sistema comunque connotato dalla frammentazione delle competenze, delle responsabilità e, in sintesi, dell’inefficienza ».
Davvero un fallimento. Ma non solo per i Sin. Infatti le aree da bonificare, comprese quelle più piccole, sono molte di più. Secondo il rapporto dell’Ispra i siti potenzialmente contaminati sono circa 15mila. Per oltre 4.300, la caratterizzazione ha accertato la contaminazione. Un numero impressionante al quale vanno aggiunti più di 1.500 siti minerari abbandonati, spesso non meno contaminati (basti pensare alle miniere di amianto). Un dato sottostimato, visto che molte regioni non hanno istituito l’anagrafe dei siti contaminati prevista dal decreto legislativo n.152 del 2006, ma anche per la disomogeneità dei criteri.
A fronte di questi numeri, il nulla o quasi. Ancora la Commissione. «I dati positivi rappresentati dall’ex ministro Prestigiacomo paiono del tutto inconsistenti se non ulteriormente confermativi della pesantezza e vischiosità delle procedure». Con rischi non solo ambientali ma anche criminali. «È stata proprio la magistratura – sottolinea la Commissione – ad accendere l’interesse su taluni siti ’dimenticati’, nei quali le procedure o erano ferme o erano apparentemente attive». Si cita Bagnoli, Grado, l’Ilva e i siti in Lombardia e Calabria. E il commento è amaro. «L’impressione che la pubblica amministrazione, che dovrebbe garantire trasparenza ed efficacia delle procedure, si attivi concretamente solo a seguito dell’apertura di indagini giudiziarie, come se le situazioni di criticità emergessero solo in conseguenza delle stesse, è davvero qualcosa di inaccettabile». Insomma, «non ha senso intervenire su questo o su quel sito (in modo più o meno discutibile) a seconda delle ’emergenze giudiziarie’ in corso».