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 2013  aprile 11 Giovedì calendario

CHI FA L’INDIANO?


Un thriller legale, politico, diplomatico e militare tra Italia e India: è il caso che coinvolge i due marò italiani. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono di nuovo a Delhi dal 22 marzo, il 26 si è dimesso il ministro degli Esteri Giulio Terzi, in polemica con il premier Mario Monti che ha deciso di rimandarli in India. Restano, però, due domande importanti. La prima: il governo indiano ha garantito o no di non applicare la pena di morte se i due fucilieri di Marina fossero rientrati in India allo scadere del permesso? La seconda: l’annuncio, l’11 marzo, di non farli ripartire dall’Italia è stato una fuga in avanti di Terzi o era condiviso dai vertici della Farnesina? E cosa dire della decisione di segno opposto del governo, 10 giorni dopo?
A questi interrogativi è ora possibile rispondere grazie ai documenti riservati che Panorama ha potuto leggere. Alla prima domanda risponde il testo dell’accordo concluso, alle 15.45 del 21 marzo, fra l’allora sottosegretario Staffan De Mistura (nominato inviato speciale da Monti all’insaputa di Terzi) e l’incaricato d’affari indiano a Roma, Ravi Shankar. Quella mattina, e la sera precedente, mentre presiede il Comitato interministeriale per la sicurezza (Cisr), Monti ha già deciso di rispedire i marò in India. Ma vuole un minimo di garanzie. Il giorno dopo scade il permesso «elettorale» (e l’ambasciatore italiano a Delhi, Daniele Mancini, ha già di fatto perso l’immunità e adesso rischia l’arresto).

L’ambasciata dell’India scrive nel documento che, nonostante i procedimenti in corso, il governo indiano «è in condizione di confermare che: 1) i marò non saranno passibili di arresto se torneranno alla scadenza stabilita dalla Corte suprema e saranno soggetti di nuovo alle condizioni contenute nell’ordinanza emanata dalla Corte il 18 gennaio 2013». In pratica, non saranno arrestati, ma risiederanno in ambasciata. La seconda (e ultima) condizione in inglese suona così: «2) According to well settled Indian jurisprudence this case wouldn’t fall in the category of matters which attract the death penalty, that is to say the rarest of rare cases. Therefore there need not be any apprehension in this regard». Tradotto: «Secondo una giurisprudenza indiana ampiamente consolidata, questo caso non ricadrebbe nella categoria di fattispecie che comportano la pena di morte, cioè i più rari tra i casi rari. Di conseguenza, non si deve avere alcuna preoccupazione a questo riguardo ». Così De Mistura la sera parla di «assicurazioni scritte», mentre il giorno dopo il governo indiano nega d’aver dato «garanzie», solo «chiarimenti». Il caso viene affidato alla National investigation agency (Nia), l’Fbi indiana che indaga su terrorismo, traffico d’armi e spionaggio. In realtà, per il reato di attentato alla sicurezza della navigazione è prevista, eccome, la pena capitale, ma diversi esponenti del governo indiano proprio riferendosi all’intesa con l’Italia promettono di onorare tutte le «assicurazioni date all’Italia».

Alla seconda domanda risponde, invece, la lettera del 26 marzo firmata dal segretario generale della Farnesina, Michele Valensise, e indirizzata a Terzi che si sta preparando per l’informativa alla Camera. Non stupisca il tu: Terzi è un collega, ex ambasciatore a Washington. Nella missiva Valensise registra il «profondo disagio per gli sviluppi della vicenda dei marò» emerso in una riunione con i direttori generali (Latorre e Girone sono appena tornati in India). «La gestione del caso, la sua improvvisa evoluzione di giovedì scorso, le pesanti polemiche che ne sono seguite sono fonte di grande frustrazione per l’amministrazione. Già nella giornata di giovedì, poi sabato e ancora ieri, ti avevo manifestato la necessità e l’urgenza di un gesto deciso di chiarezza e di assunzione di responsabilità a tutela della dignità tua e della Farnesina».
Dopo avergli espresso a nome di tutti la «solidarietà personale», Valensise riferisce al ministro l’opinione «unanime nel ritenere che l’odierno intervento in Parlamento costituisca l’ultima occasione utile per dissociare pubblicamente le responsabilità del ministro degli Esteri da quelle di coloro che, in questa vicenda, hanno voluto sacrificare la linearità e la coerenza dell’azione dell’Italia. L’offerta di dimissioni dall’incarico oggi sarebbe non un’ammissione di colpa bensì un atto di coraggio e di forza». Poche ore dopo Terzi si dimette. Anche, spiega, «per restituire onorabilità alla diplomazia italiana».

Il 29 marzo l’ormai ex ministro cita l’esistenza della lettera a Quarto grado (la trasmissione di Rete 4), senza svelare il testo, come prova del «sostegno» ricevuto dai vertici del ministero che avrebbero «stigmatizzato il cambio di rotta del governo». Di rimbalzo, fonti della Farnesina precisano alle agenzie che lo scopo dell’invito alle dimissioni era, al contrario, quello «di riallineare l’indirizzo del ministero alle direttive del governo, dopo che l’esecutivo aveva sconfessato la linea tenuta da Terzi». Chiunque può giudicare da sé.
I malumori alla Farnesina in realtà duravano dalla nomina di Terzi come ministro, anche perché sulla vicenda dei marò avrebbe «agito da solo». L’11 marzo, poi, Valensise era in America e secondo qualcuno non sarebbe stato neppure informato della decisione di non restituire Latorre e Girone. Terzi obietta che il segretario generale era sempre in contatto e la scelta del resto era maturata in settimane, se non mesi, di lavoro, con tappe tutte preparate dai funzionari e coordinate con la presidenza del Consiglio. Lo conferma De Mistura in una dichiarazione dell’11 marzo. Piuttosto, già in occasione del primo permesso natalizio dei marò, Terzi in un appunto riservato invitava Monti a valutare «l’opportunità, o meglio l’esigenza, di segnalare formalmente alla Procura della Repubblica di Roma il ricorrere delle condizioni affinché la nostra giurisdizione sia effettivamente esercitata».

Un intervento della magistratura avrebbe messo i marò nella «impossibilità pratica» di rientrare in India. A questo proposito Terzi ricordava a Monti i casi Calipari (le sezioni riunite della Cassazione hanno riconosciuto l’esclusiva giurisdizione statunitense sul militare americano che aveva sparato al nostro 007) e Baraldini (lo Stato italiano ha affermato la propria competenza a stabilire le misure da adottare nei confronti di Silvia Baraldini, seppure condannata in America). Monti non diede seguito, a quanto pare. Poi arrivò la sentenza della Corte suprema indiana il 18 gennaio che non riconosceva l’immunità funzionale a Latorre e Girone e imponeva la Corte speciale.
Terzi concorda a quel punto col suo omologo indiano, Salman Khurshid, un nuovo permesso per i marò. È la vigilia delle elezioni e il premier Monti, nonché candidato, non resiste alla tentazione di farsi fotografare con i due «eroi» appena arrivati in Italia. Terzi intanto rimugina su come fare per non restituirli. Mancini ha firmato l’affidavit «nei limiti delle garanzie costituzionali». E la Carta vieterebbe di «estradare» i militari italiani che hanno diritto al giudice naturale in Italia e a non rischiare la pena capitale.
Memorabili tra gli addetti ai lavori, a margine delle riunioni del Cisr, gli scontri fra Terzi e il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera, in nome di affari per oltre 7 miliardi di dollari e 483 imprese italiane che lavorano in India, e fra Terzi e il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, per la quale è impensabile che l’Italia non mantenga la parola data.

L’idea di Terzi, il 21 marzo, è che le condizioni concordate da De Mistura siano solo la base per un’ulteriore trattativa che porti alla garanzia assoluta contro la pena di morte, alla restituzione dell’immunità all’ambasciatore e all’assenso di Delhi all’arbitrato internazionale. Terzi chiede di escludere «dalla competenza della Corte fattispecie di reato, tra cui l’omicidio volontario e il terrorismo, per le quali la normativa indiana prevede la pena di morte». Si studia pure l’ipotesi di trasferire i marò ad Abu Dhabi (negli Emirati Arabi Uniti) e di tenerli lì fino alla conclusione del negoziato. Se necessario, anche oltre il 22 marzo.
Sappiamo invece com’è andata. Nel pomeriggio del 21 il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, e il sottosegretario De Mistura vanno da Latorre e Girone (a Roma per essere ascoltati in procura) e li convincono a tornare in India, la sera stessa. Dritti a Delhi, non più ad Abu Dhabi. Pronti per l’Antiterrorismo e per la Corte speciale.