Gianluca Ferraris, Panorama 11/4/2013, 11 aprile 2013
DIPARTITA IVA
La fotografia della crisi sta tutta in tre numeri: 52 per cento, come il livello della pressione fiscale raggiunto dall’Italia in proporzione al pil (il dato più alto dell’Eurozona); 91 miliardi di euro, come il credito pregresso vantato dalle aziende verso la pubblica amministrazione e certificato da Bankitalia; 104 mila, come il numero di attività fallite o in liquidazione nel 2012 stando ai dati Cerved. Significa che ogni giorno quasi 300 tra artigiani, commercianti e piccoli imprenditori hanno abbassato la saracinesca.
Mentre a Roma va in scena l’immobilismo politico, questo è quel che accade nel Paese reale: una Repubblica sempre meno fondata sul lavoro e sempre più su titolari di partite Iva pronti persino a suicidarsi perché nessuno li ascolta. La lista dei caduti continua ad allungarsi (solo nel 2012 si contano 89 casi) mentre le risposte del Palazzo non convincono.
L’ultimo esempio? Il decreto «salda debiti» che dovrebbe sbloccare una prima tranche pari a 40 miliardi di crediti delle imprese, ma ha cosparso di insidie burocratiche l’iter per averli. A cominciare dalla complicata procedura online per ottenere entro il 15 settembre la certificazione del pregresso: in caso di (probabili) scostamenti della cifra, non resterebbe che il tribunale. E addio rimborsi a breve.
Sono percorsi kafkiani come questo, uniti alle tasse sempre più alte, alla liquidità quasi inesistente e ai margini azzerati, a fare infuriare gli imprenditori di casa nostra. Come raccontano, con rabbia, loro stessi a «Panorama».
Incassa la metà ma l’Irap raddoppia
Nel 2009, l’anno più difficile, aveva perso oltre il 72 per cento dei ricavi. Ha tenuto duro e oggi è risalito fino a oltre il milione di euro, comunque meno della metà di un tempo. Eppure secondo Luca Peotta, titolare della cuneese Unireforn (forni industriali) e fondatore del network Imprese che resistono, il peggio deve ancora arrivare: «Uno dei miei principali clienti, una multinazionale che ha sede nel Nord-Est, sta per traslocare in Romania. Continuerò a fornirlo, ma perderò le commesse per la manutenzione, decine di migliaia di euro. Mi ha confidato che solo un pazzo oggi resterebbe in Italia». Il caso dell’Unireforn racconta che, anche quando qualche ordine c’è, si può morire di troppo fisco: «Oggi guadagno la metà ma l’Irap è raddoppiata mangiandosi praticamente gli utili, 18 mila euro in tutto. L’Ires la pago anticipata sul presunto ricavo, l’Iva idem, su fatture che magari nemmeno incasserò. Saldi a credito e rimborsi, invece, arrivano quando va bene con sei mesi di ritardo». E protestare è inutile: «Ci estingueremo per fame, letteralmente».
«Lo Stato mi paga a 365 giorni»
«Ormai il mio impegno quotidiano non è occuparmi di innovazione e diversificazione del portafoglio, ma inseguire i debitori». Destino comune a molti quello di Mario Nevali, direttore generale della PrimaVera, società specializzata nella fornitura di servizi energetici e biomedicali. Con un dettaglio in più: i suoi principali committenti sono lo Stato, gli enti locali e le prefetture, cioè i peggiori pagatori d’Occidente. «Vi sembra normale?» sospira, per nulla sollevato dal nuovo decreto salda debiti. «Da quando a fine 2012 è stata emanata la prima norma le uniche fatture che abbiamo incassato sono quelle per cui minacciavamo pesanti interessi di mora».
Meno di un terzo dei clienti di Nevali paga entro 30 giorni, per gli altri i tempi si allungano fino a oltre un anno. «In Italia l’unica cosa che arriva con puntualità sono le cartelle esattoriali, mentre noi non riusciamo a farci pagare beni e servizi già erogati. Eppure si tratta di somme che se messe in circolo farebbero ripartire l’economia».
La beffa dei contributi alla ricerca
Non parlategli di pubblica amministrazione. Luciano Miotto, 54 anni, vicepresidente della Confindustria Veneto e amministratore delegato dell’Imesa, produttrice di lavatrici industriali con un giro d’affari 2012 di 14 milioni e 92 dipendenti, è categorico: «In Italia la mano dello Stato è ovunque». Lui ne sta alla larga: zero commesse pubbliche e pochissime per le aziende italiane. «La nostra quota export è pari all’82 per cento ed è il solo motivo per cui abbiamo recuperato i livelli precrisi». I fornitori esteri pagano nei tempi previsti. Roba da fantascienza in Italia. E sempre sul fronte burocrazia incalza: «Abbiamo partecipato a più bandi per la ricerca e l’innovazione. Risultato: zero, o quasi». A quelli con la formula «clic day» il più delle volte non sono riusciti ad accedere in tempo utile e pure quando la richiesta è andata a buon fine a conti fatti la metà dei contributi ricevuti è servita per coprire le spese sostenute per ottenere quei soldi. «L’ultimo bando vinto ci ha fruttato 40 mila euro, però ne ho spesi 20 mila tra consulenti e tempo sprecato per la sola domanda».
Arriva la Primavera degli artigiani
«Sono incazzato». Diego Moscheni, 61 anni, consulente d’impresa, ex titolare di uno studio trevigiano con 12 specialisti, che ha dovuto lasciare a casa a uno a uno, abdica al tradizionale aplomb veneto per dire la sua: «Con la nostra mania del “faso tuto mi”, per anni abbiamo pensato solo ai fatti nostri. Ora basta. Solo scendendo in campo possiamo salvare il salvabile». Così il 21 marzo è nata Primavera d’Italia, un movimento che vorrebbe dare voce ad artigiani, partite Iva e piccoli imprenditori in lotta per la sopravvivenza. «Un paio di mesi e il banco salterà» dice Moscheni. Se la prende con gli studi di settore che impongono a tutti di dichiarare fatturati irraggiungibili da anni, pena il controllo fiscale. «L’assurdo è che sta al controllato l’onere della prova. Deve dimostrare perché non è stato in grado di incassare quanto lo Stato presume debba incassare».
L’ultima trovata che lo irrita? «Da quest’anno l’impresa che incrementa la propria produzione può devolvere ai lavoratori fino a 2.500 euro di premio» conclude Moscheni. «Quindi per i professori produzione e fatturato sono la stessa cosa?».
Il lavoro non manca ma i soldi non arrivano
La morosità pubblica è causa anche dei problemi di William Autoliano e della sua piccola azienda milanese che si occupa di elettricità, idraulica e manutenzioni. In due anni ha dimezzato il fatturato, sceso a 560 mila euro: «Virtuali» attacca «perché il mio principale cliente è in credito con lo Stato. E se lo Stato non lo paga lui non paga me». Intanto i suoi dipendenti sono passati da 20 a quattro e hanno la paga dimezzata da mesi. Quello che lo manda in bestia è che il lavoro non mancherebbe: le ristrutturazioni sono richieste perché nessuno investe più su case e uffici nuovi. Ma le imprese edili chiudono una dopo l’altra e trovare quella che ti paga a fine commessa è una missione quasi impossibile. Risultato? «Nei mesi buoni mi rimangono in tasca meno di 1.000 euro, ne ho 50 mila di fidi arretrati e sono diventato una botte perché ormai mangio solo pasta». Per arrotondare si è dato al cambio serrature: «Sigillo i capannoni di chi è strozzato dai debiti. Sono stato da un collega che un tempo girava in Ferrari: mi ha chiesto gli spiccioli per un caffè».
Sulla casa la paura della patrimoniale
La congiuntura, a leggere i dati, ha risparmiato buona parte del settore degli immobili di lusso. Ma quando chiedi conferma agli operatori del settore il quadro cambia: «Negli ultimi mesi il business si è praticamente dimezzato» sostiene Martino De Rosa, titolare della genovese Wiish, che vende immobili di pregio in tutto il Nord Italia. «Dire che il mercato sia sceso è inesatto, il mercato non c’è proprio più». La crisi, che trascina con sé un indotto numeroso e smarrito («Conosco immobiliaristi e arredatori che non firmano un contratto da mesi» dice l’imprenditore), ha una spiegazione quasi banale: «Chi ieri aveva pochi soldi oggi ne ha ancora meno. Chi ne ha ancora ha paura di spenderli».
Colpa delle tasse? Secondo De Rosa non solo: «L’Imu è fastidiosa, tuttavia non basta a scoraggiare un investimento. Chi mi assicura però che se compro una villa oggi domani non subirò un nuovo ritocco delle imposte, una patrimoniale, una serie di controlli fiscali, o un deprezzamento dovuto al rischio paese?».
Un falegname in Kurdistan
Otto dipendenti e un fatturato crollato del 40 per cento in un anno: «Ormai nessuno paga. Il Comune di Belgioioso mi deve 30 mila euro, soldi su cui ho già pagato tasse e Iva anche se non li ho mai visti. Quando telefono per i solleciti, mi rispondono: “C’è il patto di stabilità”. Sarebbe piaciuto farlo anche a me, quando mi hanno chiesto 8 mila euro di Imu, il doppio dello scorso anno». Così anche Massimo Peccedi, falegname e ristrutturatore d’interni, potrebbe presto lasciare la sua Sondrio per trasferirsi addirittura in Kurdistan. «Lì sono in pieno boom edilizio, qui non ho più ordini: siamo noi, ormai, il Terzo mondo» sbotta.
Sul banco degli imputati anche tasse, burocrazia e concorrenza sleale: «La pressione fiscale per noi artigiani sfiora il 70 per cento e i margini si sono azzerati. Tutti hanno cartelle arretrate, e pur di far vedere a Equitalia e banche che qualche soldo gira ancora, lavorano di continuo sottocosto, magari in nero. Così la spirale ribassista non si interrompe mai».
La conclusione è amara: «Per pagare gli stipendi di marzo ho venduto la mia moto, l’unico lusso che mi fossi mai concesso. Avevo le lacrime agli occhi, ma meglio le mie di quelle di otto famiglie».
La tassa sulla sede che non ha
Dieci anni fa a Genova si contavano 334 botteghe storiche. Oggi ne restano 14. In una di queste, la pasticceria Marescotti, il titolare Alessandro Cavo sbuffa più della sua caffettiera a vapore del 1912: «Mi è appena arrivata una cartella da 121 mila euro per la Tia (tariffa igiene ambientale, ndr) sulla sede sociale. Peccato che non ne abbia una: sono domiciliato dal commercialista». È riuscito a farsela invalidare, ma gli intoppi burocratici lo accompagnano da sempre. Nel 2008, con il mutuo che correva e la merce comprata, ritardò di sei mesi l’apertura per qualche timbro mancante. «Ho perso un Natale e sono stato costretto a partire in bassa stagione».
A cinque anni di distanza tiene duro. «Ma vendo sempre meno e pago sempre più tasse» sospira, prima di passare in rassegna le ultime uscite: la Tarsu del 2012, di 3.500 euro, diventerà una Tares da almeno 7 mila, e anche l’Imu è quasi raddoppiata. «In Francia gli esercizi come il mio sono tutelati dalla costituzione. Non aspiro a tanto, ma almeno non vorrei pagare le stesse imposte che toccano a una boutique di lusso, quando sono circondato da negozi cinesi e kebab».
«Basta, le viti vado a produrle in Moldova»
La decisione definitiva l’ha presa dopo un dialogo con una delle sue tre bimbe: «Se stai tutto il giorno in fabbrica e resti povera, devi cambiare lavoro» l’ha freddata. Anche per questo Laura Costato, 46 anni, titolare dell’azienda di famiglia che dal 1957 produce viti a Cinisello Balsamo (Milano), a fine aprile salirà su un aereo per la Moldova: «Per ora sposterò solo una parte della lavorazione, ma se le cose andranno bene entro sei mesi traslocherò del tutto». Un altro pezzo di made in Italy che se ne va per non soccombere. Lo zampino della crisi è evidente: dal 2008 a oggi i ricavi si sono più che dimezzati, passando da 1,3 milioni a 600 mila euro. Eppure, sostiene Costato, «senza gli obbrobri fiscali e burocratici italiani avrei ancora margini di sopravvivenza. Qual è la logica che permette allo Stato di passare da 3 mila euro di Tarsu a 8 mila di Tares mentre il mio fatturato crolla? La Moldova ha una flat tax al 12 per cento e un sacco di capannoni ex sovietici a disposizione. E l’Imu, manco a dirlo, non esiste».
18 anni per un assegno da 12 euro
«Indebitarmi per pagare le tasse? L’ho fatto e temo che dovrò rifarlo». Gianni Piovesan, 66 anni, manutentore caldaista e idraulico trevigiano a partita Iva, con 50 anni di lavoro alle spalle, e fino a 12 dipendenti nei gloriosi anni Ottanta, ora si conta i soldi in tasca e si barcamena tra clienti che non pagano, fidi bancari sempre più difficili da ottenere e una stretta fiscale che toglie il fiato. Con un paradosso: «Spesso lavoro in perdita perché acquisto i materiali in contanti, a fine lavori emetto regolare fattura su cui dovrò versare l’Iva, ma incasso poco o nulla». Secondo Piovesan, il 50 per cento dei suoi clienti posticipa all’infinito il saldo o non paga affatto. «Trascinarli in tribunale mi costerebbe migliaia di euro e rischierei comunque di non vedere un soldo» dice citando un caso limite: un assegno circolare da 12,39 euro arrivatogli nel 2012 a fronte di un credito di oltre 2 milioni di lire nei confronti di una ditta fallita nel 1994. Sul fronte banche taglia corto: «Sono alla stregua degli strozzini, con tassi fino al 12 per cento».
L’officina costretta a fare da banca
«Ormai la banca siamo noi» esordisce Bruno Zanetti, 54 anni, titolare dell’omonima officina di Vicenza avviata dal padre nel dopoguerra. «Non ho mai visto così tanta gente disperata perché non ha i soldi per pagarmi. Qui ci si conosce. Molti sono amici. Che fai? Ripari la macchina e speri che a rate, prima o poi salderanno». I conti della Zanetti invece vengono saldati subito. Azzerando o quasi ogni guadagno. «Altrimenti c’è l’incubo Equitalia» dice il titolare, in officina anche 12 ore al giorno con i due soci e una sola dipendente. Per ridurre all’osso i costi su macchinari, pezzi di ricambio e accessori di ogni tipo, Zanetti ha scommesso sulla Crv srl, una società di servizi a cui si appoggiano 240 tra meccanici, carrozzieri e gommisti delle province di Vicenza e Treviso, nata nel 2003 dalla fusione di quattro consorzi. «L’obiettivo è fare massa critica per ottenere sconti sulle forniture o acquisti in gruppo di singoli macchinari altrimenti troppo esosi». E sulla situazione politica attuale non ha dubbi: «Il tempo sta per scadere. La gente ha fame. Scenderà in piazza. E saranno guai per tutti».
Due anni di utili vanificati da una multa
Procedure contabili contestate seppure in vigore da sempre, perdite su crediti accertate ma elevate perché rientrino sotto la voce «modesta entità» per il cui tentato recupero non è necessario esibire la lettera del legale e qualche altra irregolarità vera o presunta. È quanto è bastato per la sanzione monstre da alcune decine di migliaia di euro che la Valtaro Formaggi si è vista recapitare nell’aprile 2012. «Un paio d’anni di utili» calcola Andrea Mangialardi, 38 anni, amministratore della ditta che fattura 4,5 milioni e ha nove tra dipendenti e soci. «Una forma costa 450 euro, una lettera dell’avvocato altrettanto. Dovrei anticipare a un professionista quanto spero che lui mi aiuti a recuperare?». E aggiunge: «Nel 2011 con altre due aziende della zona abbiamo dato vita a Emilia Food, tra le prime reti d’impresa della regione. Pochi mesi dopo sono scattati i controlli dell’Agenzia delle entrate ». Che sia una coincidenza o no, non è dato saperlo.
E perfino le farmacie soffrono
Era considerato un business a zero rischi perché i farmaci invenduti e in scadenza vengono ritirati dai produttori e i rimborsi per le medicine a carico del Servizio sanitario nazionale sono certi. Ma ora persino i conti delle farmacie traballano. «In due anni ho perso il 30 per cento dei ricavi» racconta Paola Corbellini, titolare della farmacia Corradini, tra le più antiche di Parma. «E sì che in Emilia-Romagna va ancora bene perché le asl rimborsano con regolarità. Nel Centro-Sud Italia non è così e in molti stanno chiudendo». Ma il vero punto di rottura è un altro: «La gente se può non compra più e quando compra opta per i farmaci generici con un taglio sul listino del 30 per cento» dice Corbellini, il cui giro d’affari è dato per metà da prodotti non farmaceutici. «E pure su quel fronte le difficoltà non mancano perché non si tratta di beni di prima necessità». Risultato: le promozioni sono all’ordine del giorno, come nei supermercati. «Presto sarà la volta delle catene farmaceutiche di tipo anglosassone » chiosa Corbellini.