IL 8/3/2013, 8 marzo 2013
LE FIRME DEL SOLE
Quirinale delle mie brame... L’album dei quasi presidenti
Quando Ernest Hemingway ritirò il Nobel per la letteratura a Stoccolma cominciò il suo discorso dicendo: «Vi ringrazio per l’onore che mi fate, soprats tutto pensando ai grandi scrittori che non hanno ricevuto questo premio». Ora, alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica, vien fatto di rammentare i personaggi che avrebbero potuto essere presidenti e non lo furono. Alcuni di loro sfiorarono reiezione, combattendo strenuamente per ottenerla, altri mostrarono disinteresse. In un caso almeno l’interessato preferì non entrare nemmeno in lizza: Aloide De Gasperi, nel 1948, se appena avesse voluto, sarebbe salito senza difficoltà al Quirinale. Ma allora il Colle non era così alto, nel senso che non aveva quel ruolo rilevante negli equilibri nazionali che avrebbe assunto negli anni a venire. De Gasperi era impegnato nel Governo e fu Einaudi a entrare nel palazzo che era stato dei papi. Qualche anno dopo fu Cesare Merzagora, gran signore e uomo dell’establishment economico, a vedere sfumare i suoi sogni, battuto da Gronchi. Poi fu la volta del socialdemocratico Saragat, uno dei padri della Patria (e del centrosinistra), sconfitto da Segni al termine di un lungo duello. Ma questo è anche l’unico caso di soccombente a cui il destino offre una seconda chance: due anni dopo, nel ’64, quando Segni deve dimettersi per una grave malattia, è proprio Saragat a succedergli. Quella volta comincia a materializzarsi il profilo del Candidato Perdente per eccellenza: Amintore Fanfani. Uomo energico ed eccellente, benché controverso, politico. Pantani tentò più volte di raggiungere il Colle. Non ci riuscirà mai, colpito dagli strali delle correnti democristiane e dagli attacchi a lui riservati dall’estrema sinistra. Pantani sarebbe stato un presidente volitivo e decisionista, proprio le caratteristiche per cui nessuno lo voleva. Un destino simile, ma in forme meno clamorose, toccherà più tardi a Giulio Andreotti: anche lui accarezzò a lungo l’ambizione, ma senza successo. E Forse per rivalsa descrisse il Quirinale come un luogo che faceva “impazzire”, ma solo i presidenti democristiani. Eppure fra i grandi delusi almeno due non provenivano dalla De: prima Ugo La Malfa e poi Giovanni Spadolini.
Stefano Folli
Nella foresta del Tub con ansia da abrogazione
Con tutte le leggi che ci sono, credereste mai che si possa provare nostalgia per due commi smilzi, abrogati senza troppo clamore dal decreto Sviluppo bis? Sembra improbabile, ma poiché l’abrogazione è intervenuta sul tema calduccio delle operazioni di finanziamento dei gruppi bancari, non vorremmo che la deregulation dovesse poi diventare una licenza eccessiva. La vicenda si svolge all’interno della foresta fitta del Tub, il testo unico bancario (decreto legislativo 385 del 1993). L’articolo 136 dice più o meno che amministratori, controllori e direttori di una banca non possono contrarre obbligazioni o farsi finanziare dalla banca stessa se non con l’assenso unanime del Cda e il voto degli organi di controllo. C’è anche la reclusione per chi elude questo visto, che appare dettato da prudente buonsenso per scoraggiare comportamenti disinvolti. Prima che intervenisse la tagliola del decreto sviluppo bis (DI 179/2012, articolo 24 ter), il Tub estendeva questi vincoli alle società o alle banche che fanno parte di un gruppo, mentre ora questa precisazione non compare più: sono spariti i commi 2 e 2 bis, evidentemente giudicati superflui. Lo erano? Molte delle operazioni finite sotto la lente dei magistrati, in questi ultimi mesi, coinvolgono proprio meccanismi di finanziamento. Non solo a Siena ma anche in altre banche. Sarebbe sgradevole scoprire di aver cancellato, tra tutti i commi superflui, proprio due che ci avrebbero fatto comodo.
Mauro Meazza
Bocciature europee, promozioni americane Tra i manager che si sono arricchiti con il tesoro della Seat è leggendaria la stock option di Lorenzo Pellicioli, ora amministratore delegato della De Agostini. Pellicioli ha guidato la trasformazione, cominciata con la privatizzazione nel 1997, da ricca azienda di elenchi telefonici a società superindebitata che ha attraversato la new economy fino a schiantarsi, sotto 2,7 miliardi di euro di debiti. De Agostini partecipò alla privatizzazione con 56 miliardi di vecchie lire, ne uscì dopo tre anni con un guadagno di 3mila miliardi. L’Unione europea ha bocciato la proposta dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (presieduta da Marcelle Cardani) sulle tariffe per le chiamate su rete fissa di Telecom da altri operatori perché «sono le più alte d’Europa». Us Airways ha evitato di farsi mangiare dalle grandi compagnie e si fonderà con il gigante American Airlines, che ha un fatturato doppio. A capo della nuova compagnia la più grande del mondo con mille aerei ci sarà Douglas Parker, amministratore delegato di Us Airways.
Gianni Dragoni
Attenti, i colossi del made in Italy fanno gola a molti...
La storia si ripete, ma capita spesso che sarebbe meglio fare a meno della replica. Negli anni Novanta le inchieste avviate dal Tribunale di Milano hanno cambiato la mappa del potere politico, con il crollo della Prima Repubblica. Contemporaneamente la crisi economica ha reso necessari interventi d’emergenza come la grande ondata delle privatizzazioni, partita tra applausi generalizzati. In realtà l’assenza, o quasi, di un capitalismo privato italiano disposto a investimenti stabili, di carattere strategico, ha prodotto una conseguenza poco entusiasmante: la disarticolazione di buona parte delle aziende maggiori e il passaggio di pezzi significativi sotto il controllo di gruppi multinazionali. Il risultato è stata una riduzione drastica delle grandi aziende italiane che, peraltro, non sono mai state particolarmente numerose. Vent’anni dopo la crisi è ancora più drammatica di allora e le inchieste giudiziarie sono tornate a moltiplicarsi. È fuori discussione che i magistrati devono fare il loro lavoro fino in fondo. Detto ciò, l’impressione piuttosto diffusa è che quanto rimasto delle multinazionali made in Italy sia oggetto dei desideri della concorrenza, soprattutto americana e francese. Forse per questo i due leader dei partiti di maggior dimensione, il Pd e il Pdl, hanno trovato l’occasione per sottolineare l’opportunità di mantenere in Italia il controllo di Eni, Finmeccanica, Enel. Lo ha fatto, in particolare, Pierluigi Bersani in una intervista a Radio 24 condotta da Mario Fiaterò. «In questo momento la privatizzazione totale di queste holding non va messa all’ordine del giorno».
Fabio Tamburini
Ma quanto è bello avere una moneta deprezzata
Homo homini lupus... La natura belluina della convivenza umana non ha mai fatto difetto. E anche quando non ci sono per fortuna guerre cruente, all’«umana gente» non resta che inventarne di incruente. Ora si parla molto di “guerre valutarie”: tutti vorrebbero una moneta deprezzata, per trame un vantaggio competitivo. Naturalmente, non è possibile che tutte le monete si deprezzino assieme, che i cambi sono come un’altalena intorno a un asse. Di guerre valutarie si parla da quando il ministro delle Finanze brasiliano. Guido Mantega, nel 2011, si lamentò della politica monetaria americana: creando liquidità eccessiva, disse, incoraggiava afflussi di capitali nei Paesi ad alti tassi di interesse, scatenando scomode pressioni al rialzo sulla moneta brasiliana. Altri casi possono rientrare in questi atti bellici: la Svizzera, annoiata dalla pressioni al rialzo sul franco legate agli afflussi di capitali in quel Paese-rifugio, segnò una linea del Piave, dichiarando che al franco svizzero non sarebbe stato permesso di apprezzarsi oltre al livello di 1,20 contro euro. Recentemente, il peso venezuelano è stato svalutato del 32 per cento. Ma oggi è il Giappone sotto accusa: una politica monetaria ultra-espansionistica, con l’obiettivo dichiarato di portare il tasso d’inflazione verso il 2% (è ora intorno al -1%), sta indebolendo lo yen. Ma se di guerre si tratta, sono misure difensive. Da quando si avviò , la Grande recessione (metà 2007) a fine 2012 la Svizzera aveva subito un apprezzamento reale del cambio effettivo del 19%, il Giappone del 17% e il Venezuela di un incredibile 57%. Sicuramente, non si può tacciare di “guerrafondaio valutario” chi cerca di rimediare a movimenti eccessivi...
Fabrizio Galimberti
Com’è caduta in basso la reginetta Telecom
A Piazza Affari sono rimbalzati tutti, ma non Telecom Italia che anzi ha toccato di recente i suoi minimi storici assoluti a 61,5 centesimi. Il colpo di grazia, per una società da anni agonizzante in Borsa, è arrivato dalla decisione di dimezzare il dividendo. E se togli un pezzo sostanzioso di cedola ecco cadere l’unico appeal presso gli investitori. Che poi a ben guardare quell’alto ritorno del dividendo che faceva di Telecom la reginetta delle cedole a Piazza Affari era una lusinga ingannevole. Quel 5-6% annuo di dividendo ha solo blandamente lenito le ferite inferte dal titolo ai risparmiatori. Pur con i dividendi incassati, Telecom si è rivelato uno dei peggiori affari del mercato. La performance, cedole incluse, è negativa da anni, un disastro che non ha confronti ne con l’indice ne con i concorrenti europei. Il male di Telecom ha un nome antico e si chiama debito, per anni sopra i 30 miliardi di euro, accoppiato a una crescita della marginalità industriale che si è fermata da tempo. Quel trattenere parte degli utili in azienda rischia di essere una manovra tardiva. In fondo la storia della Telecom non è altro che lo specchio del Paese. Tanto debito, bassa o zero crescita. Così si è solo destinati a un lento declino.
Fabio Pavesi
Lezione di responsabilità dal gesto del Pontefice
L’elezione del nuovo Pontefice è il primo esito della rivoluzione innescata da Benedetto XVI con le sue dimissioni. Teologi e vaticanisti le hanno commentate di par loro. Sulla Rete, poi, si sono moltiplicati i paralleli, anche beffardi, tra la rinuncia di Ratzinger e l’attaccamento alla poltrona di tanti esponenti della nomenclatura (non solo politica) italiana. Ma un aspetto non è stato sottolineato abbastanza: abdicando, e con le motivazioni che ha addotto, Ratzinger ha dato la priorità all’istituzione che egli rappresentava (il munus petrinum), anche a costo di sovvertire – lui considerato conservatore – tradizioni millenarie. Questo è il valore esemplare del suo rivoluzionario gesto: ci sono situazioni nelle quali il primo giudice dei propri limiti e delle proprie mancanze non è il Pm ma il nostro senso di responsabilità (per il Papa: Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata). Non occorre che una sentenza sia passata in giudicato, per verificare il disdoro che comportamenti conclamati provocano all’istituzione di cui si fa parte. Come liberale e, dunque, come garantista, non posso che criticare giudizi sommari, manette facili e condanne via web. Ma al garantismo farebbero un ottimo servizio comportamenti specchiati. Quando tali non sono, chi li ha messi in essere dovrebbe pensare a salvaguardare innanzi tutto la dignità del munus che gli è stato attribuito: non dallo Spirito Santo, ma dagli elettori o dagli azionisti. Senza stupirsi, altrimenti, per parlare di elezioni più mondane, che il qualunquismo dilaghi, anche negli ambienti più insospettabili.
Salvatore Carrubba
Dire, non dire, azzardare: le mosse del pilota Draghi
Già il mestiere di banchiere centrale è difficile di per sé, soprattutto in tempi di crisi violenta. Figuriamoci quando, nella stagione di superproduzione mediatica istantanea, il banchiere centrale deve comunicare qualcosa ai mercati, alle banche, agli Stati. Alan Greenspan, timoniere della Fed americana dal 1987 al 2006, era noto per il suo stile enigmatico, il successore Ben Bernanke ha tagliato il rito della conferenza stampa postdecisioni. Mario Draghi ha scelto un’altra strada: un po’ “pilota automatico” (il ruolo del governatore secondo la definizione di Guido Carli) un po’ giocatore di poker. La sua frase londinese di luglio «faremo di tutto per salvare l’euro», seguita a settembre da un minaccioso «credetemi, basterà» sul piano di acquisti di bond da parte della Bce, è valsa la stabilizzazione dell’euro più di tante leggi finanziarie nazionali. Dire, non dire («Inutile e controproducente parlare di guerra valutaria»), azzardare. Draghi sembra aver raggiunto il massimo dell’equilibrio mediatico. Che non è solo comunicazione ai mercati, ma un modo di fare politica ad altissimo livello tenendo conto dei rapporti di forza a livello globale. La "sua" Bce piace infatti sia agli americani che ai tedeschi. Anche se a un italiano nessuno farà mai sconti. Ma questo lui lo sa.
Guido Gentili