Bruno Vespa , Panorama 4/4/2013, 4 aprile 2013
L’AQUILA PERDUTA
All’alba del 6 aprile 2009 la prima inquadratura di Sky all’ingresso del centro storico dell’Aquila mostrò l’antica casa paterna di mia moglie. Sulla sinistra, nel buio, scorgemmo quello che sembrava un piccolo cumulo di macerie. In realtà ne era crollata un’ala intera, anche se la struttura quattrocentesca aveva retto assai meglio di quella più recente. Qualche ora più tardi, sorvolando in elicottero la mia città, vidi quanto mortali fossero le ferite infertele dal terremoto. Quell’alba dissi a mia moglie: «Ricostruiamo noi, subito. Prenderemo i contributi quando verranno. Ma dobbiamo dare l’esempio ».
Quattro anni dopo quelle ferite sono ancora esposte alla neve, alla pioggia, al vento, che non sono certo medicamenti ricostituenti. La casa di fronte, dove abbiamo abitato a lungo nei nostri ormai lontani soggiorni aquilani, è letteralmente a pezzi. A Pasqua dell’anno scorso, quando tornai a casa durante un dolorosissimo reportage, vi entrai senza chiavi. Presi un mio vecchio libro, che poi ho riposto a Roma senza togliervi la polvere dei calcinacci, e andai via. Oggi mi dicono che nemmeno i vigili del fuoco hanno più il permesso di accostarvisi. Perché è stato impossibile mantenere la promessa di quel giorno? Perché il centro storico dell’Aquila è tuttora un cimitero spettrale?
Resto dell’avviso che la gestione dell’emergenza predisposta dal governo Berlusconi fu eccellente. In 6 mesi furono tirate su le case delle new town enormemente più confortevoli dei ricoveri che hanno ospitato gli sfollati dei terremoti precedenti. Gli errori e i ritardi avvennero dopo. Silvio Berlusconi pensò per un momento che il centro storico dell’Aquila potesse essere abbandonato e noi aquilani gli facemmo capire che non avremmo mai accettato una soluzione del genere. L’Aquila è il suo centro storico: senza l’uno non esiste l’altra. Nonostante l’abnegazione di Gianni Letta (al governo e dopo la caduta del governo) ci furono ritardi e complicazioni inammissibili. Mi è stato chiesto dal direttore di Panorama un ricordo «romantico» della mia città e perciò non è questa l’occasione per riattizzare polemiche tecnico-politiche. Norme farraginose, soldi stanziati ma erogati col contagocce, diversità d’impostazione e ruggine personale tra il sindaco di centrosinistra e il presidente della regione e commissario di centrodestra. Insomma un disastro.
Il comune oggi fa sapere che 48 mila aquilani sono rientrati nelle case meno danneggiate e ormai riparate. Ma gli edifici del centro storico sono tuttora completamente inagibili. Il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca s’è messo a lavorare di buona lena, ha sostituito norme sbagliate, ha ripristinato i flussi di denaro che s’erano interrotti e il 28 marzo 2013 il consiglio comunale dell’Aquila ha potuto approvare la programmazione della ricostruzione del centro storico e delle frazioni con l’avvio dei lavori relativi: 5,2 miliardi complessivi con la speranza che alla città possa essere assegnato il titolo di capitale europea della cultura per il 2019, nel decennale del terremoto più tragico della sua lunga e dolorosa storia sismica.
Ma, quando L’Aquila sarà ricostruita, gli aquilani dove saranno? E in questi anni come è sopravvissuta nel nostro cuore la memoria della città? Ho trascorso il fine settimana di Pasqua a New York e ho nascosto nel fondo della mia borsa un pezzetto della pizza pasquale aquilana (un impagabile misto di dolce e di salato) e qualche fetta del nostro salame migliore, la mortadella di Campotosto. Posso dire che mentre la mangiavo nella colazione della domenica davanti ai grattacieli le lacrime correvano senza che potessi arginarle?
Poco prima di partire, montando lo speciale sulla Sindone che la sera del Venerdì santo ha preceduto la Via Crucis di papa Francesco, ho voluto inserirvi un anonimo ricordo della passione dell’Aquila: un piccolo brano del meraviglioso Miserere settecentesco che accompagna nella mia città la processione del Cristo morto. Dall’anno scorso intrattengo una rada eppure intensa corrispondenza con Silvia Mantini, professoressa nell’Università dell’Aquila, di cui trasmisi nello speciale Venerdì santo del 2012 una straziante testimonianza. Non ci siamo mai incontrati, ma le sue lettere tra un secolo saranno una cronaca impagabile dei sentimenti cambiati dopo il terremoto. E la testimonianza che accanto alle rovine dei palazzi secolari ce ne sono altre invisibili, ma altrettanto drammatiche: quelle dell’anima degli aquilani, come confermano purtroppo le statistiche psicologiche che vedono L’Aquila in testa alle classifiche italiane di depressione.
«Dopo 4 anni» mi ha scritto Silvia a Pasqua «L’Aquila è lì zitta zitta, ormai rassegnata a un destino ancora sconosciuto. Nuovi e numerosi cantieri hanno permesso ulteriori rientri nelle abitazioni di periferia, ma in centro storico, tranne piccoli tratti che rapsodicamente si aprono e si chiudono per mostrare transenne foriere di nuovi scenari, la sostanza è la stessa di un anno fa: l’erba più alta lo dimostra con eloquenza e anche i puntellamenti di legno, ormai marci, che hanno bisogno di essere puntellati… Nessuno conosce il piano di ricostruzione e la sensazione è che ogni tanto qualcosa succeda solo per iniziativa privata. Il Palazzetto dei nobili ha riaperto le sue porte, ma è circondato da edifici disabitati, bui e privi di qualsiasi ruspa e dunque di qualsiasi speranza. Anche la mia ex Facoltà di lettere (oggi Dipartimento di scienze umane) ha preso posto nell’ex ospedale San Salvatore, restando in ogni caso una cattedrale nel deserto.
«Penso, con ogni ottimismo, che le cose andranno avanti. Mi dispiace, però, che andranno a buon fine quando gli aquilani che ricordano L’Aquila saranno davvero anziani e i bambini che l’hanno conosciuta e amata se ne saranno andati. Forse sarà abitata dagli attuali neonati che non conoscono quella di prima e dai tanti stranieri. Ma fa parte della storia, come i terremoti. Io, fra moltissimi dubbi e incertezze, mi accingo a tornare nella casa dalla quale mia madre è uscita il 6 aprile, senza poterla rivedere. È una scelta obbligata dal mio lavoro e dall’impossibilità di sostenere questo sfiancante pendolarismo. Le mie ragazze (13 e 15 anni), contrariamente a quanto si possa pensare, sono contente. La piccola mi ha detto di essere stufa di “essere in vacanza” a Pescara, vuole i suoi vecchi amici, le sue reti, la sua identità. Le ho chiesto: ma poi dove andrai? Mi ha risposto: “Sotto ai portici”! Le ho detto: ma sono rotti. Mi ha risposto: “Sono mezzi rotti”. «Forse ha ragione lei. Non possiamo più cercare nella nostra città quello che non sarà mai più. Dobbiamo vederla immaginando la vecchia e la nuova che sarà, con le cicatrici del suo terremoto (se solo ce la facessero sognare!). L’altra figlia mi ha detto: “Quando andremo all’Aquila, farò teatro e andrò lì anche con gli amici (il ridotto riaprì a 6 mesi dal terremoto).
Per ora, oltre a gente rassegnata a non sognare più, che vive accucciata e stanca delle fatiche immense del vivere quotidiano, c’è gente arrivista, che si sta convertendo a valori nuovi di visibilità fatta di grandi firme. Spero di non collocarmi né tra gli uni, né tra gli altri. Spero che i sogni delle mie figlie non siano disattesi. Intanto, prima di tornare definitivamente con tutte le mie paure, mi godo quel filo di emozione pungente che si prova per le cose familiari quando, al mattino nell’andare in dipartimento all’ex S. Salvatore, lasciando la macchina davanti allo stadio, attraverso il vialetto del tennis e le scalette dell’ospedale, che hanno l’odore di casa, come quando da bambina andavo alla scuola Carducci, passando proprio davanti a casa tua. È un abbandono caldo, che mi fa sorridere. Il resto, speriamo, verrà».