Carl Zimmer, National Geographic 10/4/2013, 10 aprile 2013
SPECIE ESTINTE LA SFIDA DEI CLONI
Si trattava di un bucardo, o stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica pyrenaica), un animale grande ed elegante che arrivava a pesare un quintale e sfoggiava lunghe corna leggermente arcuate. Per migliaia di anni aveva vissuto sulle cime della catena montuosa che separa la Francia dalla Spagna, inerpicandosi sui crepacci, spiluccando foglie e steli e sopportando inverni rigidi.
Poi arrivarono i fucili. Nel giro di alcuni secoli i cacciatori decimarono la popolazione di stambecchi dei Pirenei finché, nel 1989, l’indagine di alcuni scienziati spagnoli stabilì che ne erano rimasti solo una decina. Dieci anni dopo ne sopravviveva solo uno: una femmina a cui era stato dato il nome di Celia. Un team del Parco nazionale di Ordesa e del Monte Perdido, guidato dal veterinario Alberto Fernández-Arias, la catturò, le mise un radiocollare e la rilasciò in natura. Nove mesi dopo il radiocollare emetteva un segnale lungo e costante: Celia era morta. Gli studiosi la trovarono schiacciata sotto un albero caduto. La sua morte sanciva ufficialmente l’estinzione del bucardo.
Le cellule di Celia, però, continuarono a vivere, conservate nei laboratori di Saragozza e Madrid. Negli anni successivi un gruppo di esperti di riproduzione con a capo José Folch iniettò i nuclei di quelle cellule in alcuni ovuli di capra da cui era stato rimosso il DNA, e impiantò gli ovuli in madri surrogate. Dopo 57 impianti, solo sette femmine rimasero incinte. E di quelle, sei finirono per abortire. Una madre (un ibrido di stambecco spagnolo e capra) portò a termine la gravidanza del clone di Celia. Folch e colleghi eseguirono un parto cesareo e fecero nascere un clone di due chili. Non appena l’ebbe tra le braccia, Fernández-Arias si accorse che il nuovo nato respirava a fatica e la lingua gli pendeva in modo grottesco dalla bocca. Malgrado gli sforzi per aiutarlo a respirare, morì dopo dieci minuti. In seguito l’autopsia rivelò che uno dei polmoni aveva un lobo in più, gigantesco e solido come un pezzo di fegato. Nessuno avrebbe potuto salvarlo.
Il dodo e l’alca impenne, il tilacino e il lipote, la colomba migratrice e il picchio imperiale: oltre al bucardo, sono tanti gli animali che l’uomo ha portato all’estinzione, a volte deliberatamente. E considerando le tante specie in pericolo, il bucardo sarà in buona compagnia negli anni a venire. Fernández-Arias fa parte di un gruppo di ricercatori, non numeroso ma appassionato, convinto che la clonazione possa contribuire a invertire questa tendenza.
L’idea di riportare in vita le specie scomparse (qualcuno parla di de-extinction, traducibile con il neologismo de-estinzione) è sospesa tra realtà e fantascienza da più di 20 anni, più o meno da quando Michael Crichton fece rinascere i dinosauri di Jurassic Park. Tuttavia, da allora la scienza della clonazione delle specie estinte non ha fatto grandi passi avanti. Finora il clone di Celia è l’esperimento più riuscito che sia mai stato tentato. Da quando ha assistito a quei pochi minuti di vita del clone, Fernández-Arias, che oggi dirige il dipartimento di Caccia, pesca e ambiente dell’Aragona, ha aspettato il momento in cui la scienza sarebbe finalmente riuscita a mettersi in pari con la fantasia, consentendo all’uomo di riportare in vita una specie che egli stesso ha fatto estinguere.
«Quel momento è arrivato», dice.
Ho incontrato Fernández-Arias lo scorso autunno durante una riunione scientifica a porte chiuse che si è tenuta nella sede della National Geographic Society a Washington. Per la prima volta nella storia un gruppo composto da genetisti, biologi della fauna selvatica, conservazionisti e bioeticisti si incontrava per discutere di de-estinzione. Si può realizzare? È giusto farlo? Uno dopo l’altro, i convenuti hanno presentato i notevoli progressi compiuti nella manipolazione delle cellule staminali, nel recupero del DNA antico e nella ricostruzione dei genomi perduti. Con il procedere degli interventi gli studiosi erano sempre più infervorati. Un dato sembrava certo: la de-estinzione oggi è possibile.
«La scienza ha compiuto grandi progressi e molto più rapidamente di quanto avessimo immaginato», dice Ross MacPhee, curatore della sezione di teriologia dell’American Museum of Natural History di New York. «Adesso però dobbiamo riflettere seriamente sui motivi che ci spingono a riportare in vita una specie».
In Jurassic Park i dinosauri venivano resuscitati per diventare l’attrazione di un parco di divertimenti. Le conseguenze disastrose che derivano da quell’esperimento hanno gettato un’ombra sul concetto di de-estinzione, almeno nell’immaginario popolare. Ma la gente tende a dimenticare che la storia di Jurassic Park è frutto della fantasia. Nella realtà le uniche specie che possiamo sperare di far rinascere sono quelle scomparse qualche decina di migliaia di anni fa e di cui sono stati rinvenuti resti con cellule intatte o almeno con una quantità di DNA sufficiente a ricostruire il genoma. A causa dei tassi naturali di decadimento, non potremo mai ricostruire il genoma di Tyrannosaurus rex, scomparso circa 65 milioni di anni fa. Le specie che in teoria potremmo far rinascere sono tutte scomparse mentre l’umanità pensava solo a dominare il mondo. Negli ultimi anni siamo stati soprattutto noi uomini a provocarne l’estinzione con la caccia, la distruzione dell’habitat o la diffusione delle malattie. Questa potrebbe essere una delle ragioni valide per riportarle in vita.
«Nel caso di specie che si sono estinte per colpa nostra, siamo quantomeno obbligati a provarci», afferma Michael Archer, paleontologo della University of New South Wales, paladino della prima ora della de-estinzione. Per qualcuno, voler riportare in vita specie che non esistono più significa giocare a essere Dio. Archer sorride: «Secondo me, abbiamo creduto di esserlo quando abbiamo sterminato questi animali».
Altri scienziati favorevoli alla de-estinzione sostengono che porterebbe vantaggi concreti. La diversità biologica è una miniera di risorse naturali. La maggior parte dei farmaci, per esempio, non è stata inventata dal nulla ma deriva da composti naturali trovati nelle piante selvatiche, anch’esse a rischio di estinzione. Alcune specie estinte, inoltre, svolgevano un ruolo fondamentale nei loro ecosistemi, che potrebbero beneficiare del loro ritorno. La Siberia di 12.000 anni fa era abitata da mammut e altri grandi mammiferi che pascolavano in quella che allora era una vasta distesa di steppe erbose e non una tundra coperta di muschi. Da tempo l’ecologo russo Sergej Zimov, direttore della Stazione scientifica del Nord-Est a Čerskij, nella Repubblica della Sakha-Jacuzia, sostiene che non era una coincidenza: i mammut e i numerosi erbivori mantenevano la vegetazione dissodando il terreno e fertilizzandolo con il loro letame. Quando sono spariti, il muschio ha invaso la regione trasformandola in una tundra meno fertile.
Negli ultimi anni Zimov ha tentato di riportare indietro le lancette dell’orologio ripopolando con cavalli, buoi muschiati e altri grandi mammiferi una regione della Siberia che ha chiamato Parco del Pleistocene.
Zimov sarebbe ben felice di vedere anche mammut aggirarsi liberi in quei terreni. «Solo i miei nipoti riusciranno a vederli», dice. «I topi si riproducono in fretta, i mammut molto lentamente. Ci sarà da aspettare ancora a lungo».
DIECI ANNI FA, quando Fernández-Arias tentò di riportare in vita il bucardo, gli strumenti a sua disposizione erano straordinariamente rozzi. Erano passati solo sette anni dalla nascita della pecora Dolly, il primo mammifero donato. Allora il procedimento di clonazione consisteva nel prendere la cellula di un animale e inserire il suo DNA in un ovulo precedentemente svuotato del materiale genetico. Una scossa elettrica era sufficiente per avviare il processo di divisione della cellula, dopodiché gli scienziati impiantavano l’embrione in una madre surrogata. La maggior parte di queste gravidanze falliva e i pochi animali nati accusavano spesso problemi di salute.
Nell’ultimo decennio la percentuale di successo della clonazione di animali è cresciuta e la relativa tecnologia è passata da scienza ad alto rischio a pratica di routine. Ora siamo anche in grado di indurre le cellule di animali adulti a regredire allo stato embrionale, per poi stimolarle a svilupparsi in una qualsiasi altra cellula, incluso un ovocita o uno spermatozoo. Gli ovuli possono essere manipolati fino a diventare embrioni maturi.
Grazie a questi equilibrismi tecnici è più facile far apparire di nuovo sulla Terra le specie scomparse. Scienziati ed esploratori pensano da decenni alla possibilità di riportare in vita i mammut. Il primo (e finora unico) risultato positivo è stato trovare resti di mammut ben preservati nella tundra siberiana. Adesso, armati delle nuove tecnologie di clonazione, i ricercatori della Sooam Biotech Research Foundation di Seoul si sono alleati con gli esperti di mammut dell’Università di Jakutsk, in Siberia. L’estate scorsa hanno risalito il fiume Jana scavando tunnel nei dirupi gelati che ne delimitano il corso con enormi tubi flessibili. In una di quelle gallerie hanno trovato resti di tessuti di mammut, con midollo osseo, pelliccia, pelle e grasso. I tessuti adesso si trovano a Seoul, sottoposti ad analisi dagli scienziati della Sooam. «L’ideale sarebbe trovare una cellula vitale, ma sarebbe un sogno», sostiene Insung Hwang, ricercatore della Sooam che ha organizzato la spedizione sullo Jana. Ma se gli studiosi della Sooam la trovassero potrebbero stimolarla fino a produrne milioni; queste a loro volta potrebbero essere riprogrammate per diventare embrioni da impiantare negli uteri delle femmine di elefante, il parente più prossimo del mammut ancora in vita.
La maggior parte degli studiosi dubita che nella tundra gelata possa essere sopravvissuta una cellula vitale. Ma Hwang e i suoi colleghi hanno un piano alternativo: estrarre il nucleo intatto di una cellula di mammut, che avrebbe più probabilità di essersi conservato rispetto alla cellula stessa. Clonare un mammut da un nucleo intatto, comunque, sarà molto più difficile. I ricercatori della Sooam dovranno trasferirlo nell’ovulo di un’elefantessa svuotato del suo nucleo. Per questo intervento sarà necessario prelevare gli ovuli da un’elefantessa, impresa in cui nessuno è mai riuscito finora. Se il DNA all’interno del nucleo dovesse essere in condizioni tali da prendere controllo dell’ovulo, questo potrebbe iniziare a dividersi per formare un embrione. Qualora riuscissero a superare questi ostacoli gli scienziati si troverebbero davanti un altro compito eccezionale, vale a dire impiantare l’embrione nell’utero di un’elefantessa. Poi, ammonisce Zimov, sarà necessaria molta pazienza. Se tutto andasse bene, si dovrebbero attendere ancora due anni per vedere se l’animale partorisce un mammut sano. «Io lo dico sempre, se non ci si prova come si fa a sapere che una cosa è impossibile?», dice Hwang.
NEL 1813, mentre navigava lungo il fiume Ohio da Hardensburgh a Louisville, John James Audubon assistette a un fenomeno spettacolare: uno stormo di colombe migratrici (Ectopistes migratorius) coprì il cielo. “L’aria era letteralmente piena di colombe”, scrisse. “A mezzogiorno il sole fu oscurato come durante un’eclissi, gli escrementi cadevano a gocce simili a fiocchi di neve sciolta; e il continuo fruscio delle ali induceva i miei sensi al riposo”.
Quando Audubon raggiunse Louisville prima del tramonto, le colombe volavano ancora sulla sua testa e continuarono a farlo per i tre giorni successivi. “La gente corse a prendere le armi”, scrive ancora Audubon. "“Le rive dell’Ohio erano affollate da uomini e ragazzi che sparavano alle colombe senza sosta... Così ne morirono moltissime”.
All’epoca nessuno immaginava che la specie si sarebbe estinta. Eppure alla fine del secolo le colombe migratrici dal petto rosso erano già in serio pericolo: i boschi in cui vivevano si riducevano, e il loro numero diminuiva costantemente a causa della caccia incessante. Nel 1900 l’ultimo esemplare selvatico di cui si aveva notizia fu ucciso da un ragazzo con un fucile a pallini. E 14 anni dopo (ne erano passati 101 da quando Audubon si era stupito per la loro quantità) l’unica colomba migratrice cresciuta in cattività, una femmina di nome Martha, morì nello zoo di Cincinnati.
Lo scrittore ambientalista Stewart Brand è cresciuto nell’Illinois, passeggiando nei boschi in cui qualche decennio prima eccheggiava lo sbattere delle ali delle colombe migratrici. «Il loro habitat era il mio habitat», dice. Due anni fa Brand e la moglie Ryan Phelam, fondatrice della DNA Direct, specializzata in esami genetici, hanno cominciato a chiedersi se non fosse possibile riportare in vita la specie. Una sera mentre erano a cena con George Church, biologo di Harvard e grande esperto di manipolazione del DNA, hanno scoperto che anche lo scienziato aveva pensato la stessa cosa. Church sapeva che i metodi standard per la clonazione non potevano funzionare: gli embrioni di uccelli si sviluppano all’interno di gusci e nessun esemplare da museo della colomba migratrice (neppure Martha, oggi alla Smithsonian) conteneva un genoma funzionale e intatto. Ma Church ha immaginato un modo diverso di ricreare il volatile. Gli esemplari conservati contengono frammenti di DNA. Mettendo insieme i frammenti, gli scienziati oggi sono in grado di leggere il miliardo circa di lettere che compone il genoma della colomba migratrice. Church non può sintetizzare un intero genoma animale dal nulla, ma ha inventato una tecnica che gli consente di ottenere considerevoli sezioni di DNA di qualsiasi sequenza voglia. In linea teorica, potrebbe fabbricare i geni di tratti specifici della colomba (quello della lunga coda per esempio) e integrarli nel genoma della cellula staminale di un comune piccione.
Le cellule staminali del piccione contenenti questo genoma modificato potrebbero essere trasformate in cellule germinali, precorritrici di ovuli e spermatozoi. Queste potrebbero a loro volta essere iniettate negli ovuli di piccione, dove migrerebbero negli organi sessuali degli embrioni in via di sviluppo. I piccoli nati da queste uova avrebbero l’aspetto di normali piccioni, ma avrebbero ovuli e spermatozoi con il DNA modificato. Raggiunta la maturità e l’età dell’accoppiamento, le uova di questi animali conterrebbero piccoli con le caratteristiche specifiche della colomba migratrice. Da questi volatili gli scienziati potrebbero ottenere ulteriori ibridi selezionando uccelli sempre più simili alla specie scomparsa.
In teoria il metodo di ricostruzione del genoma di Church può funzionare per qualsiasi specie di cui esista un parente stretto ancora vivente e un genoma ricostruibile. Se il team della Sooam non trovasse un nucleo intatto di mammut, quindi, qualcuno potrebbe comunque riportare in vita la specie. Gli scienziati dispongono già della tecnologia utile per ricostruire la maggior parte dei geni necessari per creare un mammut, che potrebbero essere inseriti nella cellula staminale di un elefante. E nel permafrost siberiano il materiale da usare per altri esperimenti abbonda. «Di mammut lì se ne trovano a bizzeffe», dice Hendrik Poinar, esperto di DNA di mammut della McMaster University dell’Ontario. «È solo questione di trovare i finanziamenti».
ANCHE SE LA RINASCITA di un mammut o di una colomba migratrice non è più una mera fantasia, la possibilità reale che ciò avvenga è ancora lontana nel tempo. Forse per un’altra specie estinta l’intervallo di tempo potrebbe essere più breve. Anzi, esiste almeno una probabilità che questa possa essere di nuovo fra noi prima che questo articolo vada in stampa.
L’animale di cui parliamo è l’ossessione di un gruppo di scienziati australiani guidati da Michael Archer, che ha chiamato il suo esperimento “Progetto Lazzaro”. In passato Archer aveva diretto un tentativo molto pubblicizzato di donare il tilacino, un marsupiale carnivoro estinto negli anni Trenta. In quel caso i ricercatori erano riusciti a estrapolare soltanto alcuni frammenti del DNA del tilacino. Preferendo evitare il clamore suscitato da questo tipo di ricerche, Archer e i suoi collaboratori del progetto Lazzaro hanno preferito non dare notizia dei loro tentativi prima di essere in grado di presentare alcuni risultati preliminari.
Quel momento è arrivato. All’inizio di gennaio Archer e colleghi hanno rivelato che l’oggetto delle loro ricerche erano due specie affini di rane australiane. Fino alla loro scomparsa, avvenuta intorno alla metà degli anni Ottanta, le due specie avevano in comune un metodo unico, e francamente sorprendente, di riproduzione. Le femmine deponevano un nugolo di uova che venivano fecondate dai maschi e poi ingoiate intere dalla femmine. Un ormone contenuto nelle uova bloccava la produzione di acidi nello stomaco delle femmine che, in pratica, diventava un utero. Alcune settimane dopo la femmina apriva la bocca e rigurgitava i piccoli perfettamente formati. Da questa miracolosa tecnica riproduttiva derivarono i nomi delle specie: rana a gestazione gastrica settentrionale (Rheobatrachus vitellinus) e meridionale (Rheobatrachus silus).
Poco dopo l’inizio delle ricerche sulle due specie, però, ^li anfibi si estinsero. «Le rane sono scomparse in un battibaleno», dice Andrew French, esperto di clonazione dell’Università di Melbourne e membro del progetto Lazzaro.
Per riportare in vita questi anfibi, gli scienziati si stanno avvalendo di metodi di clonazione avanzati per introdurre nuclei di rana a gestazione gastrica nelle uova di specie australiane viventi dei generi Limnodynastes e Mixophyes da cui è stato rimosso il materiale genetico. È un processo lento, perché le uova di rana iniziano a perdere vitalità dopo poche ore e non possono essere congelate e poi riutilizzate. Gli scienziati hanno dunque bisogno di uova fresche che le rane producono una sola volta l’anno durante il loro breve periodo di riproduzione.
Malgrado ciò, il team ha compiuto progressi. «Basti dire che al momento abbiamo embrioni di questo animale estinto», dice Archer. «Da qui in poi la strada dovrebbe essere in discesa». Gli scienziati del progetto Lazzaro sono convinti di avere bisogno soltanto di altre uova di buona qualità per continuare ad andare avanti.
L’UNICITÀ DEL METODO riproduttivo delle rane a gestazione gastrica ci fa capire cosa si perde quando una specie si estingue. Ma questo significa che dobbiamo riportarle in vita? Il mondo sarebbe veramente più ricco se ci fossero rane che covano i piccoli nello stomaco? Secondo French ne ricaveremmo vantaggi tangibili, come per esempio la possibilità che dalle rane possano venire scoperte sulla riproduzione che un giorno potrebbero tradursi in cure per le donne che hanno problemi a portare a compimento la gravidanza. Per molti scienziati, tuttavia, la de-estinzione distoglie energie dalla necessità più urgente di impedire la scomparsa di molte altre specie.
«Dobbiamo salvare specie e habitat in pericolo», dice John Wiens, biologo dell’evoluzione della Stony Brook University a New York. «Secondo me non è altrettanto importante riportare in vita quelle estinte. Perché investire milioni di dollari in questa impresa, quando ci sono milioni di specie che ancora aspettano di essere scoperte, descritte e protette?».
I sostenitori della de-estinzione controbattono che le tecnologie di clonazione e ingegneria genemica sviluppate per le loro ricerche potrebbero essere utili anche alla tutela delle specie in pericolo, specialmente quelle che non si riproducono facilmente in cattività. «In passato qualcuno può anche aver pensato che i vaccini antipolio distogliessero risorse dallo studio dei polmoni d’acciaio», ribatte George Church. «Nei progressi scientifici è difficile stabilire in anticipo che cosa rappresenti un’inutile distrazione o una salvezza».
Ma che cosa intendiamo con salvezza? Anche nel caso in cui Church e colleghi riuscissero a inserire tutte le caratteristiche di una colomba migratrice in un piccione, la creatura che ne risulterebbe sarebbe effettivamente una colomba migratrice o solo una curiosità genetica? Se Archer e French producessero (se non l’hanno già fatto) una sola rana meditabonda modo gastrico avrebbero davvero riportato in vita la specie? Senza un compagno, quella rana è solo la versione anfibia di Celia: la sua specie si può già considerare estinta. Per considerarla rinata basta tenere una popolazione di rane in un laboratorio o in uno zoo, perché sia oggetto degli sguardi stupiti della gente? Oppure è necessario reintrodurre la specie in natura?
«La questione del reinserimento nell’habitat originale delle specie estinte è molto complessa», dice Stuart Pimm, biologo della conservazione della Duke University. Per far rivivere in libertà l’orice bianco, per esempio, sono stati compiuti sforzi enormi. Ma dopo averne riportati alcuni in una riserva naturale dell’Oman centrale nel 1982, gli animali furono uccisi quasi tutti dai cacciatori di frodo. «Avevamo gli animali, li abbiamo riportati a casa loro ma il mondo non era pronto a riaccoglierli», commenta Pimm. «Avere la specie risolve solo una minima parte del problema».
La caccia non è l’unica minaccia per le specie recuperate. Per molte non esiste più un habitat. Il lipote si è estinto a causa dell’inquinamento e di altri problemi provocati al fiume Yangtze. La situazione non è migliorata da allora. In tutto il mondo le rane vengono decimate dal fungo chitridio, un agente patogeno diffuso dall’uomo. Se mai i biologi australiani dovessero riportare le rane modo gastrico nei loro torrenti, potrebbero scomparire di nuovo in poco tempo.
«Senza un ambiente in cui collocare le specie riportate in vita, l’intero processo risulta inutile e dispendioso», dice Glenn Aibrecht, direttore dell’Institute for Social Sustainability della Murdoch University, in Australia.
Anche se la de-estinzione dovesse rivelarsi un successo logistico completo, i problemi non sarebbero finiti. Le colombe migratrici potrebbero trovare una casa accogliente nei boschi in via di rigenerazione negli Stati Uniti orientali. Ma in quel caso non introdurremmo nell’ambiente un organismo geneticamente modificato? Le colombe migratrici potrebbero diventare veicolo di diffusione di un virus letale per altre specie di uccelli? E che cosa penserebbero gli abitanti di Chicago, New York e Washington D.C. dell’arrivo nelle loro città di una nuova specie di colomba che oscurerebbe il cielo e coprirebbe di escrementi le strade?
Anche i sostenitori della de-estinzione si pongono queste domande. Hank Greely, bioeticista della Stanford University si è appassionato alle sue implicazioni etiche e legali. Eppure per lui, come per molti altri, il fatto stesso che la scienza sia progredita al punto da rendere possibile un’impresa così straordinaria è un motivo convincente per appoggiarla. «L’idea mi incuriosisce, sarebbe una cosa fantastica», dice Greely. «Una tigre dai denti a sciabola? Sarebbe bello vederne una».