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 2013  marzo 29 Venerdì calendario

BAMBINI DENTRO

Se Milena, la giovane donna protagonista de Il corpo docile, fosse seduta di fianco a noi sull’autobus 341, probabilmente non ce ne accorgeremmo. Come nemmeno potremmo immaginare che sta andando a fare volontariato presso il carcere di Rebibbia a Roma. Lo fa ogni sabato e domenica e si occupa dei bambini che vivono lì. Bambini che vivono in carcere?, potrebbe domandarsi qualcuno se per caso ascoltasse una sua telefonata. Bambini che vivono in carcere, i figli delle detenute. Per non lasciare nulla d’intentato, ne ho parlato direttamente con Rosella Postorino, l’autrice del romanzo sul che cosa significa occuparsi di questi bambini, e lei racconta che «è un’esperienza di una gioia terribile. E un’emozione molto forte. La cosa più dura è vedere il pulimmo che entra ed esce dal portone di un carcere, con quei piccoli passeggeri dentro. Poi però i bambini di Rebibbia sono come tutti i bambini. Ti saltano addosso, ridono al solletico, ti abbracciano. Questo contatto fisico, questa fiducia dei corpi, t’illude di poter ribaltare ogni idea di paura». Che cosa assurda... Penserebbe il nostro passeggero del 341, solo che ora non è tempo per le spiegazioni, Milena deve raggiungere il carcere il prima possibile, vedere come stanno i suoi bambini, soprattutto Marlonbrando, a cui è molto legata, e che la notte scorsa, durante il terremoto, ha avuto un attacco di panico. Comunque è vero, il contatto tra i corpi sembra proprio essere la scintilla del romanzo, e Rosella lo conferma. «Ho tentato di trovare una lingua che raccontasse attraverso il corpo. Perché è il corpo la nostra prima gabbia, e allo stesso tempo è l’unico spazio concreto del contatto con gli altri». Già, il contatto con gli altri. Effettivamente, una delle cose per me più spaventose dei nostri tempi così interattivi è il fatto che siamo diventati tutti delle isole, che non riusciamo a fidarci degli altri, che appena scendiamo in strada non facciamo altro che andare a sbattere contro degli sconosciuti. Ed è proprio questo che sta per capitare a Milena. Eccola in via Bartolo Longo. Deve farsi largo in mezzo a una folla preoccupata per i familiari rinchiusi all’interno. E un vortice di teste, gambe e gomiti, che spinge per entrare. A un tratto, da questo ammasso di corpi, spunta una mano, che afferra Milena per una spalla e la trascina via. Lei ancora non lo sa, ma questo sconosciuto si chiama Lou Rizzi ed è un giornalista. Prima l’aiuterà a uscire da quell’inferno di corpi e dopo, fatta un po’ di conoscenza, vorrà il suo numero di cellulare per rivederla e scrivere un articolo sul suo lavoro di volontaria. E perché no, come dice lui, magari aggiungendo qualche foto dei bambini dietro le sbarre, che fa notizia... Che tipo, non credi Rosella? «Lou Rizzi è il “mondo fuori”, quello a cui Milena non ha mai preso parte. E la prima persona a mostrarle la vita fuori dalla prigione, non solo quella di Rebibbia, ma quella in cui lei continua mentalmente a vivere. Lou Rizzi fa nascere per la prima volta in lei un desiderio così forte che potrebbe scardinare ogni paura, e liberarla. Ma se da un lato lei vorrebbe che lui la vedesse, la riconoscesse, la accettasse, dall’altro lato non fa che nascondersi, perché sente la colpa di un segreto inconfessabile». Che cosa non può raccontare Milena? Questo lo capiremo presto, saranno i suoi ricordi a rivelarcelo. E un passato ingombrante, che pare essere sempre dieci passi avanti a lei. E come se, mentre tu stai facendo la spesa, il passato fosse già lì a casa ad aspettarti seduto, con la tavola apparecchiata.
Il romanzo di Postorino parte proprio da qui, da una Milena bambina che viene riportata a casa da suo padre. Ha solo 3 anni, e come è scritto nel destino e nella legge di chi ha una mamma carcerata, raggiunta l’età di 3 anni, i bambini escono dal carcere e tornano a casa. Dunque la verità: Milena è nata e cresciuta in carcere. “La nonna stipava tutto dentro il divano, nascondeva il letto sotto i cuscini di velluto marrone. Le ciabatte nella scarpiera, e Milena non c’era mai stata”, scrive Rosella, e ci indica la strada di come si diventa degli esseri invisibili, dei bambini lasciati a un destino storto. Più volte, mi hai ricordato il romanzo di Saramago, Cecità. Gli occhi di Milena sono per noi la sola vera possibilità di vedere qualcosa di chiaro. «Mi colpisce molto questa cosa che dici, perché Milena è quella che vede tutto e che non può sottrarsi alla condanna di aver visto. E di ricordarlo. La sua fatica è anche questa. Milena ha cercato per tutta la vita di spostarsi dalla traiettoria del suo destino, che si chiamava galera, ma questo sforzo l’ha sottratta alla vita normale. E come una mosca che cerca l’uscita in ogni direzione della stanza, e ogni volta sbatte su una parete diversa. Ma proprio questo è il suo coraggio: non rassegnarsi, continuare a cercare l’uscita». Nel frattempo che i contatti, telefonici e non, tra Milena e Lou Rizzi proseguono, viene quasi da pensare che l’amore possa essere la salvezza per lavila di Milena... È così? «Milena stessa non riesce ad accettare che capiti anche a lei, la stupidità di pensare di poter essere salvati da un altro, da un amore. La lotta contro questo amore possibile allora è proprio la lotta contro una salvezza che non arriva da se stessi. Milena non vuole essere salvata da Lou Rizzi, non vuole un altro rapporto tutoriale. L’unico modo in cui lei non so se si salva, perché nessuno si salva sicuramente fa un percorso, è immergersi a capofitto in quest’avventura con Marlonbrando, che è piena di sbagli, ripiombare senza volerlo dentro la colpa originaria, cioè trovarsi di nuovo faccia a faccia con la galera».
Mi piace questa idea, Milena mi ha fatto venire in mente la possibilità di essere noi la nostra salvezza, e non la relazione con un uomo che ci porti via dalla nostra famiglia, dalla nostra storia drammatica... Saranno le lettere che la madre scrive una volta uscita dal carcere, ad avvicinarci alla sua vita e a mostrarci, come racconta Rosella che «la possibilità della galera è per tutti. Anche per la madre di Milena, che si trova lì per tentato omicidio, ma non è una delinquente, è solo una che ha perso la bussola. Fuori da ogni retorica, volevo raccontare che quel mondo che ci sembra così lontano da noi potrebbe riguardarci, se solo prendessimo la decisione sbagliata in un periodo buio della nostra vita. In genere, la galera è una specie di destino, legato alla provenienza geografica, allo status sociale, al livello d’istruzione. Di fatto, è il setaccio finale di una società che non sa rispondere alla marginalità dei suoi elementi più deboli. Ed è il luogo della deumanizzazione per eccellenza. Il motivo per cui m’interessa tanto è che contraddice qualunque definizione acquisita di umanità, contravvenendo alle regole del pudore o del bisogno sessuale, alle norme sanitarie e di convivenza civile (vedi sovraffollamento). Chi nasce e cresce in un luogo deumanizzante, come è successo a Milena, può sentirsi un essere umano?». Ma Milena, anche se finirà nei pasticci, mettendo a rischio la sua vita e quella del piccolo Marlonbrando, il senno non lo perderà. «Quando il male che hai sempre scongiurato accade, ti libera. E questo quello che pensa Milena: la catastrofe è successa, adesso non può succedere niente di peggio. E la conferma che aspettava da sempre. E come se avesse fatto una serie di sforzi per cambiare il suo destino e si fosse ritrovata invece con la galera dietro l’angolo. Ha lottato per liberarsi da una segregazione e lei stessa, contemporaneamente, ne ha inventata una dove rinchiudere qualcun altro».
E poi, ecco che m’imbatto in una frase fulminante: “Chi c’ha figli non può scegliere”. Nonostante, a tratti, anche la vita di Milena sembri senza scelta, come quel corpo docile dei detenuti, che vivono una vita scandita dal carcere. Eppure, c’è una buona notizia che vorrei poter dare a Milena (anche se forse la sa già), se per caso la incontrassi sull’autobus 341: ed è che, quando si conosce tanto dolore, disperazione, orrore, il passo successivo è la meraviglia.