Federico Fubini, Corriere della Sera 11/04/2013, 11 aprile 2013
L’ILLUSIONE DI AVERE TEMPO
Nel 1992, oberata dai debiti, l’Italia fu costretta a uscire dall’accordo di cambio europeo e svalutare la lira del 30%. Gli investitori esteri, che avevano comprato i Btp sulla base dell’impegno del Paese a restare nel sistema monetario, si ritrovarono con una perdita effettiva di un terzo del capitale. Fra loro c’è stato senz’altro chi si sarà sentito tradito, ma gli italiani non ebbero mai la percezione di non aver mantenuto i propri impegni. Al contrario, con i loro sforzi e grazie alla scelta politica del resto d’Europa, sei anni dopo erano già nell’euro: mai un Paese è passato così in fretta dalle stalle alle stelle dell’affidabilità finanziaria, da tassi argentini a tassi tedeschi.
Questa manna non può tornare, ma devono essere stati episodi così ad aver convinto qualcuno che lo stellone ci assisterà sempre. Anche questi giorni stanno consegnando agli italiani due racconti diversi sul loro Paese. Lo spread, la detestata spia del costo del debito, continua a sgonfiarsi fino a sotto i livelli di prima delle elezioni dall’esito più surreale nella storia repubblicana. La Borsa nel frattempo sta registrando segnali di ottimismo. Nell’ultimo anno, mentre il lavoro e le imprese vivevano la più grande devastazione registrata in tempo di pace, il principale listino di Milano è positivo: chi avesse investito un anno fa, oggi starebbe guadagnando un invidiabile 6,7%.
Anche i conti pubblici sembrano dare segni di tenuta, a leggere il Documento di economia e finanza presentato ieri dal governo. L’Italia spera di tenere il suo deficit sotto il 3% del Pil, la soglia oggetto di vent’anni di idolatria a Bruxelles che non ha impedito a certi Paesi a lungo in regola — Spagna, Irlanda — di sprofondare. Soprattutto, il saldo attivo dei conti prima di pagare gli interessi risulta fra i migliori d’Europa. In base a questo il Tesoro stima che il debito pubblico dovrebbe scendere dall’anno prossimo, benché simili annunci negli ultimi anni non abbiano mai portato bene.
Poi però si può svolgere anche il secondo racconto sull’Italia. I mercati sembrano sospinti dalla liquidità sprigionata dalle grandi banche centrali, da Tokyo a Washington, più che da un calcolo razionale. Il deficit dovrà fare i conti con la recessione e con tante voci poco discusse, dal finanziamento della cassa integrazione in deroga, alle missioni all’estero, a 150 mila statali precari e in scadenza. E il debito sta superando il 130% del Pil: ieri la Commissione europea ha confermato che l’Italia e le sue banche restano fragili, al punto da rappresentare un rischio di contagio per il resto d’Europa. E non è solo questione di tassi, di spread o della Germania che amiamo tanto descrivere come avara perché non si accolla i nostri debiti. Persino l’export, il meglio dell’economia, mostra segni di fatica. Sono questi gli indici di competitività declinante che le agenzie di rating stanno guardando da vicino. Moody’s e Standard & Poor’s saranno discutibili, ma ora aspettano di vedere se il prossimo governo capisce e affronta l’incapacità del Paese di crescere: se scettiche, potrebbero declassarci (molto presto) a un soffio dal livello «spazzatura».
L’idea che ci sia ancora tempo e qualcosa o qualcuno che alla fine ci salverà forse aveva un senso nel ’92, quando Maastricht era il futuro. Vent’anni dopo la sola Maastricht che può salvarci è qui, in Italia, nella sua capacità di cambiare le proprie istituzioni economiche per prosperare. Bersani e Berlusconi ne staranno urgentemente parlando. O no?
Federico Fubini