Marco Neirotti, 11/4/2013, 11 aprile 2013
DOVE ANDRA’ SANDOKAN SE CHIUDE IL MANICOMIO?
Che fine ha fatto l’Avvoltoio, che si scagliò sul vicino di letto e con le dita gli cavò gli occhi? E Sandokan, che sventrò il fratello e ne appese una foto per giocarci a freccette? Dove si aggira Star Trek, che guidava automobiliastronavi, e Granellino, che ammazzò la madre e voleva fuggire per andare a proteggerla? Con il fotografo Tonino Di Marco vivemmo giornate con loro in quelli che i tecnici chiamano Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) e la gente, tra orrore e fiducia nelle recinzioni, manicomi criminali. Ora qualcuno è libero al mondo, qualcuno prigioniero dietro una lapide, altri in attesa della chiusura di Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto.
Dopo il lavoro della Commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Ignazio Marino, si è fissata la fine marzo 2013 per far sfollare i circa 1400 ospiti delle sei strutture (cinque di natura carceraria, soltanto Castiglione non penitenziaria) definite da Giorgio Napolitano, nel discorso di fine 2012, «l’estremo orrore inconcepibile in un paese civile». La data però slitta ancora, perché le alternative non sono pronte e già gli anni che seguirono la «180» furono drammatici: quella legge fece suo in modo frettoloso il progetto dello psichiatra Franco Basaglia, inorridito dalle condizioni dei malati e dalla cronicizzazione della malattia. Si riversò per le strade una folla sradicata e spaesata, con famiglie lasciate sole mentre fiorivano strutture private non sempre all’altezza, talora mosse solo da business. Per i malati di oggi, dichiarati «pericolosi», si prospettano strutture con massimo venti posti, non detentive, che li liberino dall’«ergastolo bianco». Ma un conto è la carta, un conto la pelle, soprattutto in questa fase di sfacelo della Asl.
In un momento tanto delicato entra nelle librerie una lente d’ingrandimento sulla detenzione e cura: La pazzia dimenticata (l’Asino d’oro), viaggio negli Opg, di Adriana Pannitteri, giornalista del Tg1, che già dedicò un libro alle madri assassine seguite a Castiglione delle Stiviere. Dopo le basi storiche, l’autrice ascolta gli operatori, spesso motivati e attivi al limite del sacrificio su una nave con il timone rotto, le vele mal rattoppate, la cambusa semivuota, culturalmente lontani dal giochetto irridente con cui si ricevevano gli ospiti negli Anni ’60: «Hai mai camminato con tre scarpe?» Narra letti di contenzione con il foro nel mezzo, muri marci, latrine intasate, docce secche, ma anche aree verdi, atelier di pittura, palestre. E incontra gli internati, orgogliosi nel loro buio o persi nella disperata impotenza: il ragazzo che accoltellava nel parco una sconosciuta e a chi voleva bloccarlo ripeteva, menando fendenti: «Non posso fermarmi, devo farlo»; il «mostro di Posillipo» che approva la chiusura degli istituti e tranquillo avverte: «Quando esco lo rifaccio»; Monica che ha «ucciso il diavolo», peccato che stava colpendo il figlioletto di due anni e mezzo. Dove andranno? Avranno strutture adatte? Perderanno quel che di buono affiora attorno alle antiche scale scrostate? Antonino Calogero, psichiatra che ha diretto per anni Castiglione delle Stiviere (l’unico dei sei «assolto» dalla Commissione), non si arrocca sul passato, ma teme salti nel vuoto: «Da noi si è lavorato imponendo al paziente di muoversi liberamente nell’area limitrofa. Solo dopo aver superato questa fase egli può riavvicinarsi alla sua realtà precedente. Non voglio dire che debba stare sempre nell’Opg, né che non debbano esistere strutture intermedie vicine al suo territorio, ma tutto deve essere fatto gradualmente. A me pare che la legge non abbia davvero tenuto conto delle esigenze di cura di persone che hanno commesso reati gravi per malattia». Il senatore Marino avverte: «Dentro queste strutture non si può assistere un internato che ha un infarto, per non parlare di persone con patologie gravemente invalidanti, come la gangrena dovuta al diabete. L’Italia non potrà considerarsi un paese civile se all’orrore degli ospedali psichiatrici giudiziari non si metterà fine nel 2013».
E il territorio? Walter Gallotta, psichiatra di formazione basagliana, primario del SPDC (il «repartino) dell’ospedale San Giovanni di Roma, sostiene: «Qui affrontiamo le emergenze, poi ci sono le comunità terapeutiche, poi la riabilitazione nei centri diurni». E indica i «passi» della possibilità nei pazienti che escono per andare a prendere il caffè al bar, senza pericoli. Calogero frena: «Non concordo con la territorializzazione: per esperienza penso che in una prima fase il paziente tragga giovamento proprio dall’essere in un luogo distante da dove ha commesso il reato, dove subisce meno le reazioni emotive, per quanto legittime, dei familiari delle vittime e dello stesso ambito sociale. Non condivido la fretta di chiudere. Bisogna almeno salvaguardare le cose che funzionano». Al dibattito non partecipano Avvoltoi e Granellini, Star Trek e Pittori, però molti di loro ascoltano, cercano di immaginare un futuro. Quello che non sanno né loro né noi è quando, insieme con le leggi, con l’abbattimento degli orrori, si sfalderanno il senso diffuso di vendetta e di cancellazione dal mondo.