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 2013  aprile 11 Giovedì calendario

IL DITTATORE-BAMBINO VIZIATO CHE SPINGE AL LIMITE L’AZZARDO

Spinto dal desiderio di farsi accettare dal mondo, preoccupato dalla necessità di domare i militari, nelle mani della zia onnipotente oppure ossessionato dal fratello ribelle: sono molteplici le letture della mente di Kim Jong-un da parte di diplomatici, analisti e psicologi americani, concordi solo nell’affermare che non si tratta affatto di un folle.

A sostenere che l’arsenale nucleare è per Kim «un metodo per farsi accettare dal mondo» è Christopher Hill, ex inviato Usa ai negoziati multilaterali con Pyongyang, che vede in tale caratteristica «un elemento di continuità con il nonno Kim Il-sung e il padre Kim Jong-il perché la scelta fu fatta, per qualche motivo, negli anni Settanta, ma divenne strategica dopo il crollo dell’Urss quando la Nord Corea si trovò isolata e bisognosa di autolegittimarsi nella comunità internazionale». Ma Michael Austin, direttore degli

Studi per l’Asia del Nord all’«American Enterprise Institute» di Washington, obietta che ciò non spiega «la differenza di un nonno e un padre molto calcolatori rispetto a Kim Jon-un assai più spericolato». «Ciò che distingue Kim è di avere avuto nel primo anno di regime uno straordinario successo» osserva Austin, riferendosi al terzo test nucleare, alla messa in orbita di un satellite e al lancio di un missile a lungo raggio «tutti riusciti». Dunque «Kim potrebbe essere indotto a non avere la stessa pazienza del padre per le partite di lungo termine, magari pensa di avere la sorte dalla sua parte e di poter accelerare più del solito» al fine di «mettere sulla difensiva il nuovo presidente sudcoreano Park Geum-hye, farsi rispettare dagli Stati Uniti e completare il controllo degli apparati militari che secondo alcuni ancora non ha».

Sarebbe dunque un disegno di potere assai lucido. Heath King, docente di psicoanalisi all’ateneo di Yale già alle prese con la mente del killer della strage di bambini a Newtown, lo definisce «una persona dal comportamento logico, non irrazionale» anche perché nato e cresciuto in un regime fondato sul culto della personalità del leader, a cui «tutto è consentito e la cui unica responsabilità è fare meglio dei predecessori».

Ma c’è dell’altro perché nella comunità di intelligence c’è chi tenta di leggere la mente di Kim Jong-un, nato fra il 1983 ed il 1984, attraverso le figure di due suoi parenti stretti. La prima è Kim Kyong-hui, figlia del fondatore «eterno presidente» Kim Il-sung, sorella di Kim Jong-il e dunque sua zia che avrebbe su di lui un’influenza personale molto forte, oltre al fatto di essere un personaggio chiave nella nomenklatura del partito per via di sommare l’appartenenza alla dinastia del fondatore con i gradi di generale delle forze armate e il matrimonio con Jang Song-taek, responsabile dei rapporti con Pechino, l’alleato più importante di Pyongyang. Secondo tale interpretazione sarebbe la potente zia la vera regista dell’escalation con Seul e Washington, nel disegno di sfruttare l’avvento del giovane Kim Jong-un per arrivare in fretta a controllare l’intero Stato-regime. Si tratterebbe dunque di una spregiudicata manovra di palazzo da parte dell’unica donna della nomenklatura, intenzionata a diventare nei fatti la vera erede del padre.

L’altra ipotesi, di natura assai diversa, ha invece a che fare con il difficile rapporto di Kim Jong-un con il fratello maggiore Kim Jong-nam che era stato destinato a guidare la Nord Corea ma venne defenestrato dal padre dopo essersi fatto sorprendere in Giappone mentre tentava di farsi passare da prete dominicano con tanto di documenti falsi. Sebbene resti fedele al regime, Kim Jon-nam è un ribelle: non è andato al funerale del padre nè all’insediamento del fratello e vive fra Macao e Las Vegas senza farsi mancare ogni tipo di svago. Da qui lo scenario di un rapporto fra fratelli conflittuale al punto da aver innescato in quello regnante la sindrome del Dottor Stranamore.