Fabio Martini, La Stampa 11/4/2013, 11 aprile 2013
BARCA, IL "FIGLIO DEL PARTITO" CHE SOGNA DI DIVENTARE LEADER
Quel giorno Fabrizio Barca se la vide brutta. Era il 1971 e nella palestra del liceo classico Mamiani di Roma, l’ennesima assemblea studentesca dominata dai gruppi di sinistra più intolleranti finì male: lui, responsabile della cellula Fgci, stava parlando, ma d’improvviso fu sollevato di peso, per le gambe e per le braccia e cacciato fuori. Allora usava così, chi la pensava diversamente doveva tacere, ma lui - nel cortile della scuola, sul campo di pallavolo - si fece dare un megafono, parlò, denunciò le violenze dei compagni dei gruppi. Episodio inedito, oggi ricordato dai testimoni e a suo modo significativo: in poche settimane la minuscola cellula della federazione giovanile del Pci - sette iscritti - quadruplicò le adesioni e di lì a poco i giovani comunisti della sezione Mazzini divennero, assieme a quelli di Cinecittà, i più forti di Roma. Da allora, tranne una breve parentesi, Fabrizio Barca non ha più fatto vita di partito, ma ora, a 58 anni, gli è tornata la voglia. Da 16 mesi ministro per la Coesione territoriale, nei prossimi giorni Barca presenterà un manifesto - «Un partito nuovo per un buon governo» nel quale spiegherà come la pensa sull’universo mondo e soprattutto ecco la vera sorpresa - spiegherà che modello di partito servirebbe per governare un Paese come l’Italia.
Un manifesto impegnativo e molto piegato sul ruolo dei partiti, ma per farne cosa? «Non ambisco a fare il segretario, ma a far parte del gruppo dirigente», ha risposto a Lucia Annunziata su Raitre. Risposta diplomatica, difficile da far «combaciare» con tutte le considerazioni politiche fatte da Barca negli ultimi mesi e poco «coerente» con la qualità del documento che lui stesso sta preparando: chi ne ha letto le bozze, assicura che si tratti di una elaborazione di alto livello, non paragonabile a nessuno dei documenti prodotti negli ultimi anni dal Pd. Un manifesto da candidato segretario, secondo linee-guida accennate negli ultimi due mesi e che ora saranno declinate nel dettaglio: «Centralità dei partiti»; un Pd con un profilo laburista e non genericamente democratico, pronto a ricongiungersi con Sel di Vendola («Io ho votato più a sinistra del Pd...»); diffidente con le Primarie, ma anche con l’attuale mentalità del «suo» partito, al quale rimprovera una insufficiente cultura di governo.
Ma Barca è tutto fuorché un antipartito. Nei giorni della formazione del governo Monti fu Giorgio Napolitano a suggerire il suo nome come ministro e, anche se dentro il Pd Barca non ha molti amici, un buon rapporto personale lo ha con Pier Luigi Bersani. Qualche mese fa il segretario del Pd lo sondò come possibile candidato sindaco di Roma, lui rispose di no, ma Bersani gli chiese che di non reclamizzare quel diniego, in modo da tener alto il livello dei candidabili. Barca lo ha tenuto per sé e, forse anche per questa apparente lontananza dai piani alti del Pd, il suo nome è stato associato ai «giovani turchi» come possibile sfidante di Renzi alla guida del Pd. Ma Barca non ha alcun rapporto con loro e qualche giorno fa lo ha raccontato ad «Europa» il capofila di quel nucleo agguerrito di giovani parlamentare, Matteo Orfini: «Io non lo conosco, non l’ho mai incontrato in vita mia».
Non è un anti-partito e, in qualche modo, è un «figlio del partito». Non solo perché suo padre, Luciano, nella stagione berlingueriana, è stato del Pci uno dei principali dirigenti, tra l’altro un uomo di cui il figlio ha sempre avuto una grande stima. Ma Barca è un «figlio del partito» soprattutto nella concezione della lotta politica. Nel corso di trenta anni la formazione internazionale, la scuola della Banca d’Italia, il lavoro assieme a Carlo Azeglio Ciampi, l’insegnamento alla Bocconi non hanno cambiato la sua idea sulla centralità dei partiti, partiti che «sappiano mobilitarsi», perché «le parti economiche sono importantissime, ma il partito è il crogiuolo dove i bisogni delle persone, e soprattutto le soluzioni, arrivano a una decisione».