Gianfelice Facchetti, SW 6/4/2013, 6 aprile 2013
IMPARA L’ARTE E METTILA IN PORTA
«Io faccio sempre un sogno. Sogno che un giorno nessuno farà più goal in tutto il mondo...»: la visione onirica di Eugenio Montale avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per tutti gli appassionati di calcio. Tra le tante, una in particolare, l’eterno riposo della categoria più bizzarra tra gli atleti dell’arte pedatoria: i portieri. Liberati dai doveri di una vita spesa tra aria e terra a salvar palloni, sarebbero stati confinati in una specie di paradiso ad annoiarsi da mattina a sera ricordando interventi un tempo "provvidenziali". Se certi gol sono segni divini, il portiere allora è un angelo, qualcuno che almeno crede di esserlo, ci prova; la palla in rete scalza leggi della fisica da una parte, dall’altra l’uomo le oppone la sua fatica che in certi voli sembra metafisica. O metà fisica, per lo meno; i portieri sono un impasto della materia di cui sono fatti i sogni... Erba, aria, polvere di gesso e urla. Come in Sisifo, in ogni numero 1 o 12 che sfidi il cielo e si chini a raccogliere il proprio limite in fondo al sacco per ricominciare, c’è ognuno di noi. È stato anche questo concentrato di suggestioni a smuovere Giovanni Cerri, pittore nato e cresciuto a Milano, a dedicare una galleria di ritratti ad alcuni dei più importanti estremi difensori d’Italia (le opere faranno parte del libro Portieri d’Italia, edizioni A. Car, in uscita a fine aprile). Apre Giovanni De Prà, chiude Gianluigi Buffon, unico in attività. Nonno dell’artista era Bonifacio Smersy, che difese la porta dell’Ambrosiana Inter per alcune stagioni, vincendo sotto la guida di Arpad Weisz il primo campionato a girone unico nel 1929-30. Da allora in serie A sono passati più di 700 portieri, chi per una manciata di minuti e chi per una vita, chi entrato subito nella leggenda e chi scalzato per malasorte, chi ricordato a distanza di un secolo e chi dimenticato all’imbrunire di una stagione sbagliata o di una “papera” pagata cara. «Li ho scelti d’istinto, per quello che hanno rappresentato, in qualche caso per un tratto somatico che foto e figurine restituivano, altri ancora per una combinazione», dice il pittore. «Non posso dimenticare la prima volta che vidi Garella con la maglia della Lazio, il grande Garellik che parava specialmente coi piedi. Associo quell’immagine a quelle di un telegiornale che in quei giorni raccontava il ritrovamento del corpo di Aldo Moro». Le storie dei volti qui ritratti parlano prima di tutto attraverso i colori. C’è il granata del Grande Torino di Bacigalupo, Ballarin, Maroso, il bianconero della Juve di Combi, Rosetta, Caligaris, il viola gigliato di Sarti, il rosso del “giaguaro” Castellini, il giallo di Albertosi nell’anno dello scudetto della stella rossonera. C’è tanto grigio, colore per eccellenza delle maglie dei portieri di tutti i tempi. E tanto azzurro, con la colonia fertile che la scuola italiana ci ha regalato tra Mondiali vinti o sfumati per poco: per dirne alcuni, Olivieri campione del mondo nel 1938 contro l’Ungheria, Walter Zenga e la chimera del ’90, Zoff capitano iridato a quarant’anni e Gigi Buffon destinato a battere ogni record. Ognuno di loro occupa nel nostro immaginario un posto tutto suo, a volte rafforzato da voci e leggende metropolitane come quella che girava attorno alla figurina introvabile del leggendario Pizzaballa, come il matrimonio che all’epoca fece chiasso tra Lorenzo Buffon, portiere del Milan, e Edy Campagnoli, valletta di Lascia o raddoppia?. Come le storie di rivalità accese tra interpreti diversi dello stesso ruolo; su tutte quella tra Ricky Albertosi e Dino Zoff; tanto spaccone ed estroverso il primo quanto sobrio e chiuso il secondo. Differenze che si vedevano anche in gesti e movenze tra i pali, il primo più spettacolare, l’altro essenziale; facce diverse con lo stesso numero sulle spalle.
Anche la fisiognomica applicata ai portieri regalerebbe spunti su cui poter vaneggiare, ma alla fine un buon numero 1 è quello che prende pochi gol e quando succede o crede che la colpa sia degli altri o sa dimenticare in fretta. «Tè presento Albertosi. El ga tuto quel che mi no poso soportar: el magna, el bevi, el va in giro de notte, el xè carigo de babe, el scometi sui cavai come ti. Ma mi lo tegno perché el xè el meo portier del mondo...»: pare che Nereo Rocco avesse presentato così Albertosi a suo cugino. Ognuno di questi volti porta con sé un frammento della nostra storia ed è normale che quanto più si vada verso il bianco e il nero, si rintracci qualcosa di epico. Basta soffermarsi sulle ginocchiere di Combi, sulla maglia di lana nera di Giorgio Ghezzi detto Kamikaze per le sue uscite prodigiose, sui piedi piatti, sfuggiti al tocco del pittore, di un portiere più “umano” come Garella. Chissà da quale scintilla per ciascuno di loro sia nato il desiderio di cacciarsi tra i pali: pazzia, protagonismo, solitudine. Le parole di Luciano Castellini forse possono valere per tutti: «I portieri non sono pazzi, hanno solo una voglia matta di farcela!».