L. Mais., la Repubblica 10/4/2013, 10 aprile 2013
IL THATCHERISMO, QUANDO L’INDIVIDUO PREVALE SULLA SOCIETÀ
Farsi sostantivo è evento complesso e raro anche per celebrati statisti. In Gran Bretagna non è mai esisto il churchillismo, al contrario del thatcherismo, marchio di un fenomeno che continua a dividere, in linea con la controversa memoria di Margaret Thatcher, scomparsa ieri a 87 anni. Fenomeno che ha a che fare, secondo i punti di vista, con ambizione e avidità, patriottismo e anticomunismo, certezze etiche e individualismo, libertà ed efficienza e molte altre cose ancora, ben elencate dalla filosofa Shirley Robin Letwyn, a lungo impegnata a scandagliare un «mistero impenetrabile».
Il thatcherismo, al di là delle inclinazioni personali, è stato in primo luogo "belief", una convizione, o meglio, un credo, ma non un’ideologia a cui mancava ogni base teorica. Fede nella capacità del singolo sprofondata in una contingenza storica precisa. Azione versus astrazione, per restare con Shirley Letwyn dinnanzi all’imperativo che imponeva di fare "la cosa giusta" per rispondere alla drammatica condizione della Gran Bretagna alla fine degli anni Settanta.
Il thatcherismo è soprattutto figlio di quella cultura metodista che Margaret Roberts respirò in casa, anzi nella bottega del padre droghiere di Grantham, che le farà sempre domandare, chiedendo conto di uno sconosciuto: «Is he one of us?», «È uno di noi?», ha cioè la stessa integrità morale, la stessa visione di un mondo libero dall’oppressione dello Stato, la stessa volontà di esemplificare tutto quanto appare complicato? Condivide, in altre parole, la nostra stessa volontà di porre il singolo al centro di ogni progetto? Terreno scivoloso, è evidente, ma ideale per un politico coraggioso nella congiuntura britannica di allora. Ciò che ne deriva è l’innalzamento dell’individuo sul sistema, del piccolo azionista sull’iscritto al sindacato, dell’impresa privata su quella di Stato.
Oggi è abbastanza evidente, trent’annni fa non lo era affatto e solo una certezza ai limiti del fanatismo - «non esiste una cosa chiamata società», resterà angoscioso epitaffio della sua analisi politica - le poteva dare la forza e l’incoscienza di agire con tanta decisione e tanto vigore. In campo economico sui tre pilastri di deregulation finanziaria con il Big Bang della City, privatizzazioni delle imprese di Stato, affermazione di un elettorato composto da piccoli azionisti e piccoli proprietari. In campo politico muovendosi fra la determinazione a ristabilire l’orgoglio e il diritto britannico con la guerra alle Falklands e la rapidità nello scorgere la parabola di Mikhail Gorbaciov, incarnazione del prologo all’imminente disfacimento sovietico.
Ha potuto combattere su entrambi i fronti, quello economico e quello politico, con la determinazione che le valse il nome ferreo passato alla storia, grazie al sodalizio personale e politico con Ronald Reagan. Difficile immaginare che Margaret Thatcher avrebbe potuto essere Margaret Thatcher a Londra, ma anche nelle epiche battaglie a Bruxelles, se non avesse avuto al suo fianco, per tanti anni del suo mandato, il presidente americano. E proprio a Bruxelles, crediamo, il thatcherismo ha assunto la sua più autentica, a tratti violenta, connotazione riassunto nello slogan «ridatemi i miei soldi» per ottenere il rimborso britannico e battere lo spettro di quelle frontiere del pubblico che, allontanate nel Regno, minacciavano di riapparire nella Comunità. Voce costantemente controcorrente che si materializzava in una donna «con le labbra di Marylin Monroe e gli occhi di Caligola», come disse François Mitterand. Eppure una voce del coro, che mai, a differenza di quanto accade oggi, pensò di mettere seriamente in dubbio la permanenza di Londra nel club d’Europa. Perché un cognome potesse farsi sostantivo era necessario anche questo.