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 2013  aprile 10 Mercoledì calendario

DALL’EOLICO ALL’AMERICA’S CUP COSÌ IL BOSS FANTASMA HA COSTRUITO UN IMPERO CHE NON CONOSCE CRISI

SE C’È qualcuno che in Italia oggi non sente la crisi e fa diventare oro tutto quello che tocca quello è un siciliano, avrà cinquantuno anni il prossimo 26 aprile, è un evasore totale, ha una faccia che nessuno conosce e vive in clandestinità. La professione ufficiale indicata sulla sua carta d’identità: contadino.
Sapevamo già che era il padrone di Trapani ma non potevamo crederci che fosse veramente così ricco questo Matteo Messina Denaro, mafioso di alto rango e ricercato numero uno dai reparti speciali delle nostre polizie dal 1993. Ammazzatine e stragi. Ma non solo sangue: soprattutto soldi. Tanti.
Stando alla «roba» che gli hanno fin qui sequestrato o confiscato sembrerebbe proprio lui, il figlio del campiere dei D’Alì — facoltosi latifondisti e banchieri che fra i loro eredi si ritrovano anche Antonio junior, uno dei fondatori di Forza Italia, senatore della Repubblica e da qualche mese sotto processo per mafia — l’uomo più di successo dell’isola con interessi praticamente in tutto quello che c’è intorno a saline e mulini a vento della sua Sicilia: turismo, energie pulite, calcestruzzi, grande distribuzione, commesse pubbliche, smaltimento rifiuti, aziende vinicole e di ristorazione, ospizi per anziani, case di cura.
Ieri abbiamo scoperto che aveva allungato le mani anche sul fronte del porto. Messi i sigilli giudiziari a moli e banchine costruite da società — collegate all’inafferrabile Matteo — che nel 2004 si erano aggiudicati maxi appalti in preparazione dell’America’s Cup, regate davanti alle isole Egadi e un mare di soldi dirottati verso Trapani per finire, gira e rigira, sempre nelle tasche degli amici dell’ultimo padrino di Cosa Nostra. Il nome del senatore Antonio D’Alì è ancora una volta trascinato in queste vicende dove c’entra Matteo. «Per il rapporto che mio padre ha con D’Alì, puoi stare certo che l’appalto sarà aggiudicato a noi», confessava un costruttore a un collega. E poi diceva al telefono: «Il senatore mi ha promesso che me la faceva passare... la cosa del porto».
Trenta milioni «congelati». Spiccioli, se confrontati ai beni requisiti fino ad ora — l’ultimo quattro giorni fa, un miliardo e 300 milioni sottratti al «re dell’eolico » dell’isola, «l’affermatissimo » imprenditore Vito Nicastri che aveva intestato a suo nome 43 società, 98 immobili, 7 auto e 66 fra conti correnti, titoli e fondi investimento — a veri e presunti prestanome del misteriosissimo boss di Castelvetrano, mafioso figlio di mafioso soprannominato «Diabolik» o «Testa dell’Acqua», venerato dai suoi come un dio, latitante da vent’anni per l’uccisione di Giovanni Falcone, per quella di Paolo Borsellino, per la strage di via dei Georgofili di Firenze. Dal 3 giugno del 2010 i servizi segreti italiani offrono una taglia di un milione e mezzo di euro, tutto cash per chi darà informazioni su di lui. Ma Matteo Messina Denaro può pagare di più, molto di più il silenzio.
Rileggendo i bollettini delle operazioni poliziesche degli ultimi dodici mesi i conti sono presto fatti: euro più o euro meno, sono due i miliardi di beni che, direttamente o indirettamente, sono riconducibili a teste di legno del «contadino» originario di Castelvetrano. E dentro questo conto non ci sono altri 5 miliardi del patron della Valtur Carmelo Patti, che gli investigatori considerano «molto vicino» a Diabolik. La Direzione investigativa antimafia ha chiesto il sequestro di quel patrimonio, il Tribunale di Trapani ha rigettato l’istanza, da qualche mese è iniziato un procedimento davanti ai giudici della sezione «misure di prevenzione » per decidere il destino del colosso alberghiero.
Se tutti questi dati elencati sono attendibili — e cioè se gli investigatori hanno fatto bene il loro mestiere — il boss che ha ricevuto l’incoronazione mafiosa dopo le catture di Totò Riina e Bernardo Provezano, è veramente un Re Mida, un Paperon de’ Paperoni che si è «fatto da sé» scalando Cosa Nostra impadronendosi del mercato. Di tutto il mercato. Non c’è attività economica in provincia di Trapani e nella Sicilia occidentale dove, per un verso o per l’alto, non si faccia sempre il suo nome.
«Ha saputo fare quello che altri nemmeno immaginavano», dice Giacomo Di Girolamo, un giornalista di Marsala che ha pubblicato due bei libri sul boss e che più di chiunque altro conosce il personaggio. Ogni mattina, dai microfoni della sua radio cittadina —
Rmc 101— Di Girolamo dedica una trasmissione al padrino fantasma. Comincia sempre con queste parole: «Dove sei, Matteo?». Probabilmente fra Castelvetrano
e Trapani, praticamente a casa sua.
Un «innovatore» Matteo. Fiuto per gli affari e una mentalità molto diversa da quei corleonesi che accumulavano terreni e società per far lavorare parenti e amici, distribuire favori, sistemare compari. Matteo Messina Denaro ha affidato a esperti il suo impero. Il meglio che c’era su piazza per l’eolico, il meglio che c’era su piazza per il fotovoltaico, il meglio che c’era su piazza per i supermercati. Per esempio quel Grigoli, Pino Grigoli. Nel 1974 gestiva a Castelvetrano una bottega di generi alimentari e dichiarava al fisco 3 milioni e 700 mila lire l’anno, poco più di 1.500 euro. Quando, sei anni fa, l’hanno arrestato aveva sette supermercati nella Sicilia occidentale e un patrimonio di 55 milioni di euro. Pino Grigoli aveva tutto intestato, ma dietro c’era sempre lui, «Diabolik ». Che gli faceva macinare (e ripulire facilmente) nei Despar di Agrigento e Trapani e Palermo denaro su denaro. Avevano veramente intuito tutto quelli di Forbes— la rivista americana di economia e finanza — che già nel 2010 avevano stilato la classifica dei latitanti più ricchi al mondo. Al quinto posto c’era il figlio del campiere di Castelvetrano.