Raffaele La Capria, Corriere della Sera 10/04/2013, 10 aprile 2013
GIOVANNI URBANI, I MONUMENTI COME PROTAGONISTI DEL FUTURO
Quando Giovanni Urbani morì, gli amici che lo avevano amato e ne avevano riconosciuto le qualità dell’anima e dell’intelligenza, non si rassegnarono a vederlo scomparire nel silenzio e nell’anonimato che sembrava gli fossero riservati, anche perché lui non si era mai curato troppo di promuovere se stesso. Era stato direttore dell’Istituto Centrale del Restauro dal quale poi si era dimesso per divergenze insormontabili con l’ambiente, critico d’arte e saggista di valore, ma non era stato considerato come meritava. Tra gli amici che ne avrebbero voluto far conoscere e rivalutare il pensiero e l’opera, c’erano non solo Giorgio Agamben, Bruno Zanardi e io stesso, ma molti altri, che avevano avuto con Giovanni un rapporto umano e intellettuale che non avevano più dimenticato. La mia amicizia con lui era cominciata con un viaggio per nave in America, nel ’57, quando entrambi eravamo stati invitati a partecipare all’«International Seminar» dell’Università di Harvard diretto da Henry Kissinger, ed era proseguito poi al ritorno con una frequentazione quasi giornaliera e una partecipazione alla vita culturale della Roma di quegli anni. Due miei racconti pubblicati da Nottetempo e ora ripresi nel mio Doppio Misto (Mondadori, 2010) rievocano quell’incontro.
Tra Giorgio Agamben e Giovanni oltre all’amicizia c’era un’affinità di pensiero e di linguaggio cementata dalla comune ammirazione per Heidegger da cui erano entrambi influenzati. Quando li sentivo parlare mi tenevo a rispettosa distanza mentre mi sforzavo di capire quello che dicevano, invidiandoli un po’ si e un po’ no, per la loro capacità di inseguire le idee e i ragionamenti anche quando diventavano talmente rarefatti che pareva impossibile afferrarli.
Con Bruno Zanardi, poi, il rapporto era quello tra maestro e discepolo nel senso più affettuoso e nobile della parola, e Bruno era certo più informato e più addestrato di me a capire il lavoro che Giovanni aveva fatto all’Istituto del Restauro, la sua originalità di impostazione, e l’ostilità che aveva incontrato fino al momento in cui aveva deciso di dare le dimissioni. L’offensiva che questo gruppo di amici stava covando per sdoganare Giovanni dal silenzio, non credo sia stata premeditata, è venuta formandosi negli anni, naturalmente, anche perché come ho detto gli amici di Giovanni erano tanti, e si parlavano tra di loro, e il nome e le virtù e il carattere di Giovanni venivano spesso ricordati, ognuno aveva qualcosa da dire, un episodio da raccontare. La personalità di Giovanni insomma aveva lasciato una traccia, era impossibile dimenticare il suo stile e la sua grazia, il suo senso dell’umorismo, le sue boutade e i suoi paradossi. Si stava già formando intorno a lui la leggenda. Fu allora che io scrissi il racconto America ’57, a Sentimental Journey (edizioni Nottetempo), e fu così che capii che il dandy, il mondano, il sofisticato e spregiudicato Giovanni, era un uomo fragile, colpito dall’insanabile dolore di un figlio infelice, amato e troppo presto perduto; e spinto ora dal desiderio di riscattarsi da tutto questo come da una colpa, impegnandosi con tutta l’anima nel suo lavoro come in una missione che a lui la Patria aveva affidato. E quando dico Patria parlo di quel patrimonio di opere d’arte che gli avi avevano messo nelle nostre mani perché le conservassimo come un bene prezioso in cui potessimo riconoscere la nostra più segreta identità.
Che strana combinazione, pensavo, è questo Giovanni, tra un onesto funzionario dello Stato ligio al suo dovere di difensore della Cosa Pubblica e un idealista, un poeta e infine «un uomo d’onore» simile a quel Lord Jim di Conrad, il libro che lui teneva sul comodino. Insomma, scrivendo del nostro viaggio in America avevo voluto far venir fuori questo Giovanni che io e tanti altri avevamo conosciuto e amato. Al ritorno da quel viaggio, a Roma, la nostra amicizia divenne frequentazione quotidiana, non c’era giorno in cui non ci si telefonava per vederci a cena da Cesaretto o la sera in un caffè, e poi nella casa di Kiki, una donna di grande fascino mondano, proprio il tipo di donna che formava, con lui, una coppia di quelle che si dicon perfette. E in un altro racconto intitolato Un amore al tempo della dolce vita (Nottetempo) volli raccontare quest’amore che ebbe la sua bellezza, ma fu turbolento, un incontro di «belli e dannati», perseguitati entrambi da un passato che non furono in grado di superare.
E così il tempo dell’amore fu per loro anche quello del dolore e della morte. Dopo la pubblicazione di questo racconto il nome di Giovanni finì anche sui giornali, e «Il Foglio» gli dedicò una serie di interviste che uscirono settimanalmente a puntate. Stefano Di Michele, che fece queste interviste, interrogò una grande quantità di persone che avevano conosciuto Giovanni e ognuno recò la sua testimonianza. Fu per Giovanni una specie di plebiscito di affetto, intorno a lui non ci fu più il silenzio, Giovanni non era più soltanto l’amico che avevo evocato in un racconto, ma stava diventando una figura pubblica. Questi articoli poi furono raccolti nel libro Ritratto di un signore (Marsilio, 2011) di Stefano di Michele. A questo punto entra in gioco il libro Il restauro di Bruno Zanardi che con la serietà e la competenza di uno studioso spiega meglio a tutti com’erano andate le cose e com’era stato straordinario il contributo che Giovanni aveva dato alla scienza del restauro e alla concezione stessa di arte contemporanea.
Ricordo un Giovanni precocemente invecchiato, un Giovanni stanco che a mezzogiorno, un’ora insolita, era seduto da Cesaretto. Il ristorante a quell’ora era deserto, e quando passavo di lì trovavo lui e Bruno Zanardi che gli teneva compagnia. Capivo che parlavano di quello che Giovanni aveva scritto in articoli e saggi, cose che dovevano essere salvate, cose di cui Giovanni poteva parlare solo con Bruno perché solo Bruno sapeva di che cosa si trattava e dell’importanza che quegli scritti avrebbero avuto. Giovanni sentiva in quel tempo, con una specie di strana premonizione, che la morte presto lo avrebbe portato via, e parlando con Bruno cercava di mettere in salvo il meglio che aveva scritto. Io non avevo nessuna vera competenza nel campo del restauro e dei problemi che Giovanni aveva dovuto affrontare, ma sapevo che questi problemi riguardavano non solo il restauro e i modi migliori per affrontarlo, ma la vita stessa di Giovanni, perché lì si era giocata una partita di quelle feroci, di vita e di morte, tra Giovanni e i suoi avversari, che erano quasi tutti quelli del suo ambiente. Tranne poche eccezioni, tra cui Antonio Paolucci, tutti lo avevano contrastato nessuno lo aveva sostenuto, e Giovanni alla fine era stato costretto a dimettersi. Spettava a Bruno Zanardi, e poi a Giorgio Agamben, vendicarne la memoria e rivelare l’originalità del suo pensiero. Col libro Il restauro e sottotitolo Giovanni Urbani e Cesare Brandi, due teorie al confronto (Skira, 2010) Bruno Zanardi spiegava molto bene il rapporto che c’era stato tra Urbani e i suoi oppositori, e anche io, leggendo questo libro ho capito meglio l’importanza di Giovanni e le tribolazioni da lui incontrate nel suo lavoro.
Salvatore Settis aveva arricchito il libro con una prefazione, mettendo in evidenza il fatto che se il restauro è un intervento che avviene post factum, bisognava fare in modo che con la prevenzione le opere avessero sempre meno bisogno di restauro, come appunto aveva suggerito Giovanni. Ma la parola prevenzione, così come la intendeva e avrebbe voluto applicarla Giovanni, implicava una vera e propria rivoluzione, che avrebbe cambiato l’assetto di chi in quel momento deteneva il potere, e da qui nasceva l’ostilità insormontabile verso di lui e le sue teorie. Nello stesso libro Zanardi spiegava l’apporto che Agamben, ricollegando il pensiero di Urbani a quello di Foucault, gli aveva dato coi suoi saggi.
Giovanni Urbani, per un’archeologia del presente, scritti sull’arte contemporanea, a cura di Bruno Zanardi, con saggi di Giorgio Agamben e Tommaso Montanari, uscito da Skira nel 2012, è stato fortemente, per anni, voluto da Bruno Zanardi per far conoscere gli scritti di Giovanni sull’arte che altrimenti sarebbero andati dispersi. Posso testimoniare con quale pazienza e superando quanti ostacoli, anche di carattere economico, è finalmente venuto alla luce questo libro. In esso Giovanni si esprime in prima persona e in uno stile molto personale, sull’arte di oggi, partendo dal presupposto che essa «non ha cessato semplicemente di esistere, ma si è piuttosto trasformata in riflessione critica sull’arte». Cosa che egli fa appunto molto acutamente in questo libro. Di lui Agamben scrive: «Una straordinaria mente filosofica e un critico d’arte sotto ogni aspetto eccezionale... che si pone in anticipo su Foucault e sui pensieri di Kojève circa la fine della storia oppure precorre in una prospettiva più filosofico-metafisica le posizioni di Jean Clair sull’arte contemporanea stigmatizzando lo strepito e il furore dei suoi mille eventi».
Raffaele La Capria