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 2013  aprile 10 Mercoledì calendario

LA VERA STORIA DI «MAGGIE POPPINS». CON LEI LONDRA E’ DIVENTATA ADULTA —

Margaret Thatcher terrorizzava gli inglesi, e gli inglesi rispettano coloro di cui hanno paura. Ma il terrore — pensate al cinema e alla letteratura — può essere un sentimento eccitante. Questa città e questo Paese, da due giorni, stanno riguardando un vecchio film che credevano d’aver dimenticato. Un film su un’epoca sepolta: gli anni Ottanta. Il tempo in cui, grazie a una donna cocciuta, è cambiato tutto. Il Regno Unito ha imparato a lavorare, a guadagnare, a mangiare, a viaggiare, a guardare all’Europa (anche se non sempre gli piaceva ciò che vedeva). Londra era un musical con tante comparse — Eastenders e rampolli reali, yuppies e vecchi cronisti, pacifisti e pachistani, punk per puristi e punk per turisti — e una sola protagonista: Maggie.
È cambiato tutto per merito — qualcuno dice: per colpa — di una donna: ma ormai non abita più qui. È stato scritto e detto molto, in queste ore, sull’eredità politica, economica, finanziaria, strategica e filosofica di Margaret Hilda Roberts sposata Thatcher. Meno sul cambiamento antropologico che ha innescato. Pensate solo a questo. Fino agli anni Ottanta, money era una parolaccia, in Gran Bretagna. La ricchezza si doveva intuire, non vedere; avere, non conquistare; usare, non sfoggiare. Da vent’anni gli inglesi parlano di soldi più dei brianzoli. Fanno pagare tutto a tutti, possibilmente in anticipo.
Qualcuno sostiene che questo è declino; mentre è soltanto cambiamento. «The great transformer», titolava ieri il Financial Times. È così. Gli anni Ottanta sono stati per il Regno Unito gli anni di Margaret Thatcher, come gli anni Sessanta furono gli anni dei Beatles. Il paragone non deve sembrare irriverente — né agli amanti dei Fab Four, né agli ammiratori del primo ministro. La signora di Grantham, come i giovanotti di Liverpool, ha segnato la storia britannica in modo indelebile. Nessuno potrà dimenticarla.
Non me l’hanno raccontato: l’ho visto. Dalston, Tufnell Park, Clapham South, Notting Hill, Kensington: tra il 1979 e il 1989 ho osservato Londra cambiare, uscendo dalle porte di molte case. Ho sempre pensato fosse una città fantastica — ancora oggi, la più sorprendente sul pianeta — ma dovesse convincersene. Ci ha messo dieci anni, ma ce l’ha fatta. Margaret Thatcher ha lasciato Downing Street nel 1990. La sua scia è più lunga. Continua con John Major, il suo ectoplasma politico; e Tony Blair, il suo figlioccio ideologico. Ma l’azione del laburista è stata soprattutto cosmetica; quella di Maggie T. chirurgica e sciamanica.
Margaret Thatcher, come Silvio Berlusconi, aveva la capacità di far perdere il senno agli avversari. Ma, a differenza di Berlusconi, aveva una vita privata regolare, una parola sola, il coraggio di prendere decisioni impopolari, idee originali, rispetto per le istituzioni, una coerenza che sconfinava nella cocciutaggine. Ricordo — ero corrispondente a Londra per il Giornale di Montanelli, preparavo il mio primo libro Inglesi — gli appellativi aggressivi. Caterina la Grande, La Grande Elefantessa, «Rhoda the Rhino» (Roda il Rinoceronte), Colei Che Deve Essere Obbedita, Westminster Ripper (variazione di Yorkshire Ripper, lo squartatore dello Yorkshire) e «bossette» — nome attribuito a Lord Carrington, ex segretario generale della Nato. Interessanti anche «Tina» — acronimo di «There Is No Alternative» (non c’è alternativa) — e «Tbw», dalle iniziali di «That Bloody Woman», quella maledetta donna. Il totale dei soprannomi in uso, secondo un calcolo del tempo: ventitré. Una donna che lasciava il segno: si capiva allora, si capisce oggi. Dopo sei anni di Harold Wilson non c’era il wilsonismo, ma solo più di confusione; dopo quattro anni di Edward Heath nessuno parlava di heathismo, ma dell’ultimo tentativo di un governo conservatore di puntellare un Paese cadente. Dopo tre mesi di Margaret Thatcher c’era già il thatcherismo. C’è ancora oggi, senza di lei. Ma è diventato ormai un prodotto da esportazione, buono per gli arabeschi dei commentatori stranieri. Qui a Londra è un prodotto tradizionale, pronto a essere confezionato per turisti e musei. Nessuno batte gli inglesi nel marketing della storia.
Soltanto Margaret Thatcher ha avuto il coraggio di dire alla nazione quello cui mai un primo ministro aveva osato accennare. Innanzitutto, che la Gran Bretagna aveva vinto la guerra, ma era come se l’avesse perduta. Nel 1945, povera e stremata, aveva smesso di essere una grande potenza: a quel punto doveva diventare qualcos’altro. Con i suoi metodi da bambinaia manesca, la signora ha costretto il Paese a guardare in faccia la realtà. Gli ha insegnato che non è vergognoso, per uno dei più grandi imperi della storia, competere con la Corea del Sud; che, per un operaio, volersi comprare la casa non è un’infamia, ma una scelta di buon senso; che aver battuto i nazisti per venir poi sconfitti dai sindacati non è soltanto folle, ma ridicolo.
Londra è una città diventata adulta: il merito è anche della sunnominata bambinaia. Maggie Thatcher non era Mary Poppins. Non ballava, incedeva. Non cantava, proclamava. Ma quello che diceva — caso raro in politica — era ciò che credeva. Non svolazzava con un ombrello; potendo, l’avrebbe usato per convincere gli avversari della bontà delle proprie idee. I laburisti ci misero un po’ a capire che la signora non si accontentava di sconfiggerli a ripetizione, ma intendeva convertirli. I conservatori — basta leggere gli obituaries sui giornali per capirlo — non si capacitavano di aver scelto come leader un personaggio del genere, e invocano Disraeli e la sua visione di una «società caritatevole». I giovani inglesi — in maggioranza col cuore a sinistra — la odiavano. Nelle discussioni con gli amici venivo salvato dalla nazionalità. Sei italiano, dicevano, non puoi capire quant’è orrenda questa donna.
Invece capivo. E capivo che non era orrenda. Era la tromba suonata nelle orecchie di una nazione che dormiva da troppi anni; e chi viene svegliato in questo modo non è mai riconoscente. Ma a distanza di tempo non ci possono essere dubbi: viva la tromba e brava Maggie Thatcher.
Beppe Severgnini