Pierluigi Battista, Corriere della Sera 10/04/2013, 10 aprile 2013
IL COMPROMESSO STORICO DEL ’76. LUCI E OMBRE DI UN MODELLO DIFFICILE
Si diceva, nel ’76, che la democrazia italiana dovesse uscire dal blocco che la tormentava da oltre un trentennio, lungo l’arco dell’intera storia repubblicana. La «solidarietà nazionale», invocata in questi giorni da Giorgio Napolitano come precedente virtuoso cui dovrebbero ispirarsi le forze politiche più responsabili, doveva infatti segnare la svolta, la preparazione di un salto. Mentre l’Italia conosceva una crisi drammatica, il terrorismo rosso seminava morte negli agguati, quello nero si era perso nella follia stragista, e la violenza politica era all’ordine del giorno. Come oggi, allora? Forse peggio di oggi. Ma comunque, quel tentativo era destinato a fallire.
L’Italia di oggi, che dovrebbe consigliare un governo di «larghe intese», è alla fine di un ciclo. Quella del ’76 avrebbe dovuto aprirne un altro: ecco una differenza fondamentale. La fine disordinata e sgangherata della Seconda Repubblica coincide con un meccanismo dell’alternanza democratica che si è inceppato. Per quasi vent’anni siamo andati avanti più o meno così: prima vinceva una parte, poi l’altra. Oggi non si sa chi ha vinto. O, meglio, chi ha perso di meno. E le larghe intese dovrebbero abbracciare i perdenti responsabili. Allora, nel ’76, e anche prima, quando Enrico Berlinguer mise su carta le sue riflessioni sul «compromesso storico» all’indomani del colpo militare di Pinochet in Cile, l’alternanza democratica era la grande sconosciuta nel gioco politico italiano. C’era un partito, la Dc, che aveva stabilmente il monopolio delle forze di governo e uno, il Pci, che aveva stabilmente quello dell’opposizione. Le forze intermedie, il Psi in testa, si barcamenavano da decenni tra due magnetismi contrapposti.
L’idea di Aldo Moro era quella di spezzare l’incantesimo in modo omeopatico, attraverso un lento coinvolgimento del Pci nell’area di governo, poco a poco, passo dopo passo, gradualmente, con un’inclusione progressiva, «moroteizzando» il Pci. La «non sfiducia» con cui il Partito comunista sarebbe dovuto entrare nell’orbita governativa senza far parte formalmente del governo e nemmeno della maggioranza, non era una delle solite invenzioni fumose del lessico politico italiano, di cui Moro era uno degli artefici più prolifici. Era questo modo soffice di narcotizzare una svolta politica per non creare spavento. Per questo l’uomo giusto adatto a non suscitare le paure dei moderati non poteva che essere Giulio Andreotti. Bisognava fare come con la nascita del centrosinistra quando erano stati i socialisti, e non i comunisti, ad essere cooptati nella stanza dei bottoni, e stavolta senza nemmeno il rumore delle «sciabole» che Nenni avvertì ai tempi del «Piano Solo». Stavolta non c’erano le sciabole. Ma le P38 che furoreggiavano nei cortei del ’77 e le mitragliette delle Brigate Rosse che massacrarono la scorta del Moro rapito proprio il giorno del ’78 in cui la «solidarietà nazionale» avrebbe dovuto conoscere il suo apice.
Chi non era del Pci e non era della Dc sentì nel «compromesso storico» la stretta soffocante di una tenaglia che avrebbe asfissiato una democrazia senza opposizione. Le avvisaglie della «solidarietà nazionale» portarono alla ribalta nel Psi, già ridotto al lumicino nelle elezioni del ’76, l’astro di Bettino Craxi con l’operazione del Midas. E fu Craxi a rompere il gioco a due che si stava avvolgendo sulla politica italiana. Aveva torto? Il guaio era che in Italia, incardinata in eterno la politica sull’asse democristiano, le opposizioni non diventavano mai maggioranze dopo un normale verdetto elettorale (situazione che si sta ricreando oggi). Il Pci non era mai andato al governo non, come recita il dogma complottista, per i torbidi disegni di qualche centrale politica dominata dagli Stati Uniti, ma perché non era mai riuscito, dal 18 aprile ’48 in poi, a conquistare i voti necessari, e con le alleanze giuste, per aspirare al governo del Paese.
Quando sentivano parlare del «fattore K» evocato da Alberto Ronchey, i comunisti se ne adontavano. Ma i numeri restavano quelli: la Dc e la sua coalizione maggioranza, il Pci, solitario, in minoranza. Era questo lo schema delle «larghe intese» che Moro e Berlinguer avrebbero voluto rovesciare. Lo stesso Berlinguer teorizzava che solo con il 51 per cento non si potesse governare. Questo forse dovrebbe ricordarlo oggi Bersani, che vorrebbe governare con il 26,5. Ma allora suonava come una assoluta lontananza dalla prassi e dalla normalità delle democrazie occidentali: si governa sempre anche con un solo voto in più. Mentre nella filosofia della «solidarietà nazionale», il normale gioco democratico di due forze che si fronteggiano, si alternano, confliggono ambedue nell’ambito di un sistema accettato, non è visto affatto come un disvalore ma come l’essenza di una democrazia. Questa era l’anomalia italiana. Ed è contro questa anomalia che il Psi di Craxi, riconquistato con orgoglio il suo aggressivo autonomismo, si batteva. Con grande sospetto della Dc e soprattutto con l’ostilità, destinata ad incrudelirsi, del gruppo dirigente del Pci e di Enrico Berlinguer in special modo.
L’Italia, allora come oggi, era sull’orlo del baratro. La crisi economica, il terrorismo, la violenza di piazza, l’estremismo, il tasso altissimo di conflittualità sociale, rendevano quasi disperata l’attività degli «stabilizzatori». Erano gli anni della moderazione sindacale di Luciano Lama, che denunciava la teoria del salario come «variabile indipendente», e della tentazione che oggi si definirebbe «concertativa» della Confindustria ispirata da Gianni Agnelli che si materializzò nell’accordo sulla scala mobile. Quel tentativo fu sconfitto. E nessuna immagine può essere più eloquente, come epitaffio di una stagione politica, di quella che raffigura il corpo privo di vita di Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault, a pochi passi dalle sedi nazionali della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Il muro della politica italiana non era stato abbattuto e bisognava aspettare anni perché cadesse il muro decisivo, quello di Berlino. Antefatto della fine della Prima Repubblica. Quello della Seconda, è ancora cronaca di una grande convulsione.
Pierluigi Battista