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 2013  aprile 08 Lunedì calendario

QUEL DIETROFRONT CHE ANCORA NON GIUSTIFICO

L’epilogo naturale e coe­rente del libro I nostri ma­rò doveva essere, sino al­le ore 20 del 20 marzo, la conferma che Massimiliano Latorre e Salva­tore Girone sarebbero rimasti in Italia, sullo sfondo di una crescente e ampia pressione internaziona­le su New Delhi: in sostegno della tesi che la controversia doveva es­sere risolta secondo il diritto inter­nazionale; che dovevano avviarsi consultazioni italo-indiane facili­tate da un mediatore designato dalle Nazioni Unite; che la violazione della Convenzione di Vien­na con la sospensione dell’immu­nità all’Ambasciatore italiano doveva essere oggetto di scuse e di as­sicurazioni formali all’intera comunità internazionale circa il rispetto delle ba­silari regole nelle relazioni tra gli Stati.
L’epilogo del tardo pomerig­gio del 21 marzo sembra invece tratto da una storia e da motivazioni completamente diverse da quelle che avevano guidato, con prudenza e al tempo stesso fermezza, la strategia del Go­verno e della diplomazia del no­stro Paese dal momento in cui, con la cattura dei nostri marò a metà febbraio 2012 nel porto di Kochi, si è aperta una pagina difficile nei rapporti con l’In­dia.
Le esatte motivazioni di que­sta inversione di rotta improv­visa, approfondita e discussa in modo assai sommario prima della ripartenza per l’India dei nostri marò, sembrano anco­ra, in gran parte, da spiegare e da scrivere. Così come sembra­no ancora da spiegare e chiari­re le condizioni, da me insisten­temente richieste non appena appresa la notizia che Latorre e Girone stavano comunque per imbarcarsi per New Delhi, che avrebbero dovuto essere otte­nute dall’India prima di ricon­segnare i due marò.
L’obiettivo del Governo era stato dall’inizio della vicenda quello di salvaguardare la sicu­rezza e la dignità dei nostri due militari.
L’azione internazionale è sta­ta efficace, continua, vigorosa. Altro che «diplomazia debo­le», come qualcuno ha ironizza­to. Nulla di più fuorviante. È questa diplomazia forte ad aver gradualmente influito sul­l’atteggiamento di New Delhi, convinta a fine 2012 a una qual­che flessibilità: concedendo due permessi ai marò per veni­re in Italia. Ma sempre di giuri­sdizione nazionale indiana si trattava; e New Delhi continua­va a respingere qualsiasi forma di internazionalizzazione della vicenda, nonostante l’am­pio sostegno dato su tale punto all’Italia dalla comunità inter­nazionale, preoccupata degli effetti dirompenti che questo precedente poteva avere sulle operazioni di pace e antipirate­ria.
L’Italia precisava quindi, ne­gli ultimi mesi del 2012, una strategia mirata all’attivazione della procedura arbitrale, espe­ribile anche senza il consenso indiano, come previsto dalla Convenzione sul Diritto del Mare. Se la via dell’arbitrato non è stata formalmente avviata pri­ma della nota sentenza della Corte Suprema indiana del 18 gennaio 2013- sentenza, si noti bene, che abbiamo atteso di rin­vio in rinvio per ben sette mesi- ­è stato perché i legali davano per molto probabile, sull’es­senziale aspetto della giurisdi­zione, una sorta di decisione sa­lomonica: attribuendo la giuri­sdizione territoriale all’India, in considerazione della nazio­nalità delle vittime in «acque contigue» a quelle territoriali indiane; ma, ed era questa una probabilità che si valutava alta, la Corte avrebbe riconosciuto all’Italia la «giurisdizione fun­zionale». Che tale linea di pen­siero non sia estranea alle auto­rità indiane, lo dimostra tra l’al­tro la circostanza che è proprio sul principio «funzionale» che fa leva l’India per riportare nel proprio Paese, per giudicarli, due suoi peacekeepers accusa­ti di gravi reati in Congo.
Venuta meno questa speran­za, il Governo decideva di acce­le­rare la messa a punto dell’op­zione arbitrale ex Convenzio­ne sul Diritto del Mare. Non ap­pena rientrati in Italia per vota­re, il Governo esaminava collegialmente la mutata situazio­ne. Decideva di effettuare pas­si formali con New Delhi, ne in­formava immediatamente i partner (io stesso ne parlai il 5 marzo al segretario generale delle Nazioni Unite, a New York),e apriva con l’India quel­la che in diritto internazionale si chiama «una controversia», nella consapevolezza che vi sa­rebbe stata una reazione, che il Governo riteneva, a quel pun­to, di dovere e poter sostenere. Gli indiani conoscevano perfet­tame­nte la sensibilità delle con­siderazioni economiche. Così come le conoscevamo noi. Un approfondimento dell’insie­me delle relazioni bilaterali fa­ceva capire perfetta­mente quanto ogni ipotesi di misure e contromisure commerciali sarebbe sta­ta autopunitiva, per il Paese che volesse mettersi su questa strada.
A questo punto è importante ricorda­re la sequenza. I ma­rò tornano a votare. Ai primissimi di mar­zo si decide collegial­mente di proporre agli indiani consultazioni, ex art. 100 Un­clos, che vengono respinte. La settimana dal 5 al 10 marzo vede un’intensa concertazione governativa, che si conclude con la decisione condivi­sa dalla Presidenza del Consiglio di notifi­care all’India­che era­no modificati radical­mente i presupposti per la validità del no­to Affidavit , che i marò sarebbe­ro rimasti per essere giudicati in Italia, almeno sin quando un arbitrato internazionale non avesse deciso in merito alla giu­risdizione.
Il 20 tutto è rovesciato. Gli in­diani dicono pubblicamente che «la forza paga con l’Italia». I nostri partner internazionali sono esterrefatti, così come le Forze armate e la diplomazia italiana.
Mi sono dimesso perché ho ritenuto, e ritengo, profonda­mente sbagliato il passo indie­tro che è stato fatto. Lo ritengo sbagliato e ingiusto per Massi­miliano e Salvatore, per le loro famiglie, per ciò che rappresentano le nostre Forze Armate nel nostro Paese e nel mondo; lo ri­tengo negativo per le migliaia e migliaia di italiani e di imprese che lavorano all’estero e che devono poter contare sul soste­gno coerente e determinato del loro Paese quando si trova­no in difficoltà.