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 2013  aprile 07 Domenica calendario

DA BARTALI A CAVANI CI VUOLE FEDE PER GIOCARE DA DIO

Lo sport somiglia molto alla vita, e può essere re­ligioso o irreligioso co­me lo è la vita. Quello che lo dif­ferenzia d­alla vita di tutti i gior­ni è che per sua natura lo sport tende a portare i gesti della vi­ta all’estremo. Camminare, correre, saltare, trastullarsi con una palla tra i piedi o nelle mani, lancia­re o gettare qualcosa, farla a botte, an­dare in bici, compiere un gesto bizzarro per far col­po su qualcu­no - proprio come fanno i cervi o i galli cedroni. Lo sport conduce tut­te queste co­se al limite nel quale un uomo è co­stretto a domandarsi: ce la potrò fare?
Uno sguar­do superficia­le può con­durci a con­cludere che è tutta questio­ne­di prepara­zione, che la macchina umana si può programma­re e che perciò il record del mondo, o il gol spettacolare, o la vittoria più strepitosa non siano altro che la «conseguen­za» di una preparazione mira­ta a condurre l’atleta fino a quel punto. Ma l’atleta sa che le cose non stanno così. Noi persone comuni possiamo al più immaginarlo, ma sapere è un’altra cosa. L’atleta sa che tra la preparazione e il risulta­to esiste uno iato impondera­bile.
Tutti i calciatori, quando en­trano in campo, si fanno il se­gno della croce. Inutile discu­tere se lo facciano per fede o per scaramanzia, forse molti di loro non sanno nemmeno perché lo fanno. La sostanza di quel gesto è una consapevo­lezza semplice: «Qualunque cosa io faccia, non dipenderà del tutto da me».
Lo sanno gli attaccanti, che per lunghi periodi non riesco­no ad andare in gol anche se ce la mettono tutta, e in altri periodi la mettono sempre dentro, di ginocchio, di nuca, magari sbagliando a colpire la palla. Non è una questione di preparazione atletica o psicofisica, ma di abbandono. Bi­sogna arrivare, cioè, al punto in cui non padroneggi più sol­tanto la tua disciplina, ma ti ci abbandoni al punto da coinci­dere con essa. Questa immedesimazione si chiama fede. Le imprese eroiche di Gino Bartali. L’urlo liberatorio di Valentina Vezza­li. I colpi a sensazione dei vari Messi, CR7 o Ibra. C’è sempre, alla base del grande risultato sportivo, un atto di coraggio, una sfida che contempla - in quanto sfida - anche il falli­mento, la figuraccia, le movio­le spietate, i commenti male­voli sui giornali o al bar. Senza questo aspetto imponderabi­le, esiste solo il doping, che non è altro che il tentativo di annullare o comunque ridur­re artificialmente ogni iato, ogni scarto, e di tenere così tut­to sotto controllo.
La fede è un «sì» totale, una certezza senza riserve, che an­che l’atleta più forte può non avere. Alì disse di avere scon­fitto Foreman, nel leggenda­rio match di Kinshasa del 1974, perché era stato in gra­do­ di misurare fin dove si spin­geva la fede di quell’uomo dalla forza spaventosa (e che era anche un eccellente pugile). Anche il tifo sportivo ci sugge­risce qualcosa di utile. Noi diciamo «io sono dell’Inter», «io sono del Milan» e non «io so­no per...». Nel tifo riconoscia­mo un’appartenenza che al­trove ci sfugge sempre di più.
La fede nasce dalla constata­zione che il risultato di quello che facciamo è qualcosa di più di noi stessi. Nella vita quo­tidiana questo limite è più in­certo, più difficile da com­prendere. Viceversa, nello sport quel limite sta sotto gli occhi sempre. Come gli eroi antichi, l’atleta sa che senza l’aiuto di un dio è difficile scri­vere il proprio nome nell’albo della gloria, che è passeggera - come ricorda bene Dante (Pur. XI) - ma che ciò nono­stante è data solo agli audaci.
Perché noi siamo fatti per l’immortalità, e questo è vero. Ma per conquistare l’immor­talità bisogna prima conqui­stare la mortalità, che non è poi così a portata di mano. Per superare il limite bisogna averci sbattuto il naso contro, per andare in paradiso biso­gna sapere che c’è l’inferno, per recuperare la vista - come nella parabola evangelica del cieco nato - bisogna prima sapere che siamo ciechi.