Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 31 Domenica calendario

DISABILITÀ TRAVOLGENTE


Uno spettacolo per essere tale ha bisogno di un titolo, proprio come una persona vuole un nome per essere riconosciuta. Invece Disabled Theater (una definizione!) è il "non titolo" di un progetto espressamente creato dal coreografo francese Jérôme Bel per un gruppo di disabili svizzero-tedeschi affetti da sindrome di Down e da ritardi psichici anche gravi. Maestro nell’allestimento di operazioni coreografiche il cui fine è indagare i meccanismi del fare teatro e della sua percezione (basti ricordare l’esilarante The Show Must Go On, o i magnifici ritratti di vari danzatori), Bel ha lavorato per la prima volta con disabili e l’ha fatto con tale cura e dedizione da essersi guadagnato ampi consensi ad Avignone, al Centre Pompidou di Parigi, persino al Documenta (13), di Kassel. Ora Disabled Theater ha aperto l’undicesima e ricca edizione milanese di «Uovo Performing Arts», un debutto in appropriato clima pasquale, anticipato al Teatro Grande di Brescia, dove ha ottenuto il successo forse più ambito: ritrovare in platea gruppi e famiglie unite ai loro disabili.
Diversissimo da ogni altra esperienza scenica con portatori di handicap (il genere artistico ha cominciato a vivere negli anni Sessanta del secolo scorso), Disabled Theater ha un atout minimalista. Dieci sedie sono collocate al centro della scena spoglia; a lato, un alter-ego multilingue di Bel impartisce pacati ordini, svelando così anche la struttura della messinscena. Anzitutto, c’è la presentazione muta, in proscenio, di ognuno dei dieci interpreti: Pina Bausch docet, però sostenere quelle immobilità lunghe ciascuna un minuto è difficile. Gli sguardi dei disabili bucano la quarta parete. Poi c’è l’invito a pronunciare il proprio nome, a svelare l’età (qui dai venti ai quarantadue anni) e la professione. Tutti si definiscono "attori" o "attori professionisti" come, in effetti, sono nel gruppo Hora di Zurigo, attivo dal 1993. All’implacabile richiesta di dichiarare il proprio handicap, fanno seguito descrizioni minuziose, svelte o refrattarie, e candidi «non lo so». Qualcuno afferma di essere mongoloide e di sentirsi male per questo, qualcun altro si dispiace di essere un Down.
Dopo le confessioni, la danza: Bel dice, o meglio lo afferma il suo alter-ego per lui, di aver scelto solo sei degli assoli proposti dai performer su musiche da loro indicate. Parte lo show e i movimenti appaiono subito unici, energici, istintivi, sempre sulla musica anche quando si tratta solo di far roteare una sedia con le dita. I disabili amano il ritmo: Jackson e gli Abba sono tra i pop preferiti. Soprattutto la loro danza in levare, possiede quella speciale naturalezza che passa dalla musica al corpo senza mediazioni cerebrali. I professionisti "normali" passano anni per raggiungere quella magica nonchalance, gli "anormali" hanno il dono dell’immediatezza.
Finite le coreografie, cominciano le critiche ed è in questo rimpallo umanissimo e spiazzante che si erge tutto l’acume di Bel, abituato a creare un teatro talmente onnivoro da includere anche la propria esegesi. Alcuni disabili giudicano le loro performance "super", altri "dirette", oppure fanno eloquenti pernacchie. Quando riportano certi giudizi dei genitori: «siete come animali da circo in un freak show» – si capisce quanto poco possano essere accettati dai loro stessi congiunti. Infine, il portavoce del coreografo vuole artatamente mostrare pure i quattro assoli scartati da Bel, e questi sono i più espressivi. C’è una danza con un velo, l’imprevedibile trasformazione della breakdance con salti obliqui e inventivi head spin e tra l’altro un lieto e nostalgico jazz-boogie interpretato da uno dei performer più maturi che rimasticando Fred Astaire e Gene Kelly è andato, a suo modo, oltre.
Dopo quest’ultima concessione al pubblico lo spettacolo ha termine nel più composto dei modi, i corpi che durante la messinscena fanno fatica a stare fermi e seduti, s’inchinano e in gruppo si ritirano. C’è qualche trepidazione per il ragazzo iper istruito sulla sua sindrome di Down, – il meraviglioso breaker –, sentitosi improvvisamente male, ma poi ricompare agli applausi: Disabled Theater con i suoi imprevisti, è anche questo. Una consapevole dissezione chirurgica, e per fortuna senza pietà, dei "fallimenti" della natura umana.
Chi ride davanti agli assoli del Teatro Hora giustamente si diverte; il freddo "non spettacolo" dal quale spira un’incontenibile umanità tenuta a freno da Jérôme Bel, ha il pregio di tutti gli spettacoli del coreografo: intrattiene il pubblico ma lo obbliga a meditare. Un breve e meraviglioso testo, Il loro sguardo buca le nostre ombre, di Julia Kristeva e Jean Vanier (tra l’altro Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso con la prefazione di Gianfranco Ravasi) potrebbe allargare questa riflessione in attesa di un convegno, «Se io fosse te», e di La pazza gioia uno spettacolo di Julie Ann Anzilotti con i disabili di cui è da tempo la guida.
Per puro caso, anche questa pièce comincia à la Bausch: i portatori di handicap italiani raccontano paure, piaceri e dispiaceri. A differenza degli svizzeri-tedeschi loro stanno In mezzo alle margherite (titolo di un libro di prossima pubblicazione sulle loro esperienze teatrali), ma la finalità è la stessa. Tra Jérôme , il chirurgo, e Julie Ann, la poetessa, qui è in ballo – e danza – la rivincita della cosiddetta anormalità.