Marinella Guatterini, Il Sole 24 Ore 31/3/2013, 31 marzo 2013
DISABILITÀ TRAVOLGENTE
Uno spettacolo per essere tale ha bisogno di un titolo, proprio come una persona vuole un nome per essere riconosciuta. Invece Disabled Theater (una definizione!) è il "non titolo" di un progetto espressamente creato dal coreografo francese Jérôme Bel per un gruppo di disabili svizzero-tedeschi affetti da sindrome di Down e da ritardi psichici anche gravi. Maestro nell’allestimento di operazioni coreografiche il cui fine è indagare i meccanismi del fare teatro e della sua percezione (basti ricordare l’esilarante The Show Must Go On, o i magnifici ritratti di vari danzatori), Bel ha lavorato per la prima volta con disabili e l’ha fatto con tale cura e dedizione da essersi guadagnato ampi consensi ad Avignone, al Centre Pompidou di Parigi, persino al Documenta (13), di Kassel. Ora Disabled Theater ha aperto l’undicesima e ricca edizione milanese di «Uovo Performing Arts», un debutto in appropriato clima pasquale, anticipato al Teatro Grande di Brescia, dove ha ottenuto il successo forse più ambito: ritrovare in platea gruppi e famiglie unite ai loro disabili.
Diversissimo da ogni altra esperienza scenica con portatori di handicap (il genere artistico ha cominciato a vivere negli anni Sessanta del secolo scorso), Disabled Theater ha un atout minimalista. Dieci sedie sono collocate al centro della scena spoglia; a lato, un alter-ego multilingue di Bel impartisce pacati ordini, svelando così anche la struttura della messinscena. Anzitutto, c’è la presentazione muta, in proscenio, di ognuno dei dieci interpreti: Pina Bausch docet, però sostenere quelle immobilità lunghe ciascuna un minuto è difficile. Gli sguardi dei disabili bucano la quarta parete. Poi c’è l’invito a pronunciare il proprio nome, a svelare l’età (qui dai venti ai quarantadue anni) e la professione. Tutti si definiscono "attori" o "attori professionisti" come, in effetti, sono nel gruppo Hora di Zurigo, attivo dal 1993. All’implacabile richiesta di dichiarare il proprio handicap, fanno seguito descrizioni minuziose, svelte o refrattarie, e candidi «non lo so». Qualcuno afferma di essere mongoloide e di sentirsi male per questo, qualcun altro si dispiace di essere un Down.
Dopo le confessioni, la danza: Bel dice, o meglio lo afferma il suo alter-ego per lui, di aver scelto solo sei degli assoli proposti dai performer su musiche da loro indicate. Parte lo show e i movimenti appaiono subito unici, energici, istintivi, sempre sulla musica anche quando si tratta solo di far roteare una sedia con le dita. I disabili amano il ritmo: Jackson e gli Abba sono tra i pop preferiti. Soprattutto la loro danza in levare, possiede quella speciale naturalezza che passa dalla musica al corpo senza mediazioni cerebrali. I professionisti "normali" passano anni per raggiungere quella magica nonchalance, gli "anormali" hanno il dono dell’immediatezza.
Finite le coreografie, cominciano le critiche ed è in questo rimpallo umanissimo e spiazzante che si erge tutto l’acume di Bel, abituato a creare un teatro talmente onnivoro da includere anche la propria esegesi. Alcuni disabili giudicano le loro performance "super", altri "dirette", oppure fanno eloquenti pernacchie. Quando riportano certi giudizi dei genitori: «siete come animali da circo in un freak show» – si capisce quanto poco possano essere accettati dai loro stessi congiunti. Infine, il portavoce del coreografo vuole artatamente mostrare pure i quattro assoli scartati da Bel, e questi sono i più espressivi. C’è una danza con un velo, l’imprevedibile trasformazione della breakdance con salti obliqui e inventivi head spin e tra l’altro un lieto e nostalgico jazz-boogie interpretato da uno dei performer più maturi che rimasticando Fred Astaire e Gene Kelly è andato, a suo modo, oltre.
Dopo quest’ultima concessione al pubblico lo spettacolo ha termine nel più composto dei modi, i corpi che durante la messinscena fanno fatica a stare fermi e seduti, s’inchinano e in gruppo si ritirano. C’è qualche trepidazione per il ragazzo iper istruito sulla sua sindrome di Down, – il meraviglioso breaker –, sentitosi improvvisamente male, ma poi ricompare agli applausi: Disabled Theater con i suoi imprevisti, è anche questo. Una consapevole dissezione chirurgica, e per fortuna senza pietà, dei "fallimenti" della natura umana.
Chi ride davanti agli assoli del Teatro Hora giustamente si diverte; il freddo "non spettacolo" dal quale spira un’incontenibile umanità tenuta a freno da Jérôme Bel, ha il pregio di tutti gli spettacoli del coreografo: intrattiene il pubblico ma lo obbliga a meditare. Un breve e meraviglioso testo, Il loro sguardo buca le nostre ombre, di Julia Kristeva e Jean Vanier (tra l’altro Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso con la prefazione di Gianfranco Ravasi) potrebbe allargare questa riflessione in attesa di un convegno, «Se io fosse te», e di La pazza gioia uno spettacolo di Julie Ann Anzilotti con i disabili di cui è da tempo la guida.
Per puro caso, anche questa pièce comincia à la Bausch: i portatori di handicap italiani raccontano paure, piaceri e dispiaceri. A differenza degli svizzeri-tedeschi loro stanno In mezzo alle margherite (titolo di un libro di prossima pubblicazione sulle loro esperienze teatrali), ma la finalità è la stessa. Tra Jérôme , il chirurgo, e Julie Ann, la poetessa, qui è in ballo – e danza – la rivincita della cosiddetta anormalità.