Carlo Rovelli, Il Sole 24 Ore 31/3/2013, 31 marzo 2013
L’INGEGNERE CHE INTUÌ L’ANTIMATERIA
Chi è il più grande fra i fisici moderni, dopo Einstein? Conosco molti teorici che risponderebbero senza esitazione: Dirac, premio Nobel a trent’anni, massimo architetto della meccanica quantistica, scopritore dell’antimateria, il nome associato a una delle più belle equazioni della fisica. Eppure Dirac è forse il meno conosciuto fra i protagonisti della straordinaria esplosione di conoscenza del XX secolo. In parte, questo è dovuto alla raffinata astrattezza della sua scienza. Forse ancora di più alla sconcertante stranezza del suo carattere. Silenzioso, riservatissimo, incapace di esprimere emozioni e sentimenti, spesso incapace di riconoscere le facce delle persone conosciute, incapace perfino di tenere una conversazione normale o addirittura comprendere semplici domande, Dirac rasentava e forse sconfinava nell’autismo. Durante una sua lezione un collega interloquì: «Non ho capito quella formula»; Dirac dopo una breve pausa silenziosa continuò imperterrito. Il moderatore lo interruppe chiedendogli se non volesse rispondere alla domanda, e Dirac, sinceramente stupito: «Domanda? Quale domanda? Il collega ha fatto un’affermazione». Non era spocchia: l’uomo che vedeva i segreti della natura che sfuggivano a tutti, non comprendeva il linguaggio implicito, e prendeva ogni frase alla lettera. Oggi, questo grande strano e inavvicinabile scienziato diventa un po’ più accessibile, grazie a una poderosa e dettagliatissima biografia di quasi settecento pagine, che ne scandaglia in minuto dettaglio la vita e le poco visibili emozioni.
Si chiamava Paul Adrien Maurice, ma i nomi propri non li ricorda nessuno: per tutti è sempre stato solo "Dirac". Infanzia difficile fra un padre troppo esigente e una madre eccessivamente presente. Affascinato dalle idee di Einstein fin da ragazzo. Non studia fisica, ma ingegneria. Ma è la fisica teorica che lo attira. Passa del tempo con Bohr, il padre dei quanti, e quando finalmente il giovanissimo Heisenberg, suo coetaneo, scrive le prime vere equazioni corrette della meccanica quantistica, è lui, Dirac, a prendere in mano la nuova teoria, e costruirne l’intera impalcatura matematica e formale. Nelle sue mani, la meccanica quantistica, da accozzaglia snaturata di intuizioni, mezzi calcoli, e fumose discussioni metafisiche, si trasforma in una architettura perfetta: aerea, semplice e bellissima. Ho studiato la meccanica quantistica al terzo anno dell’università, a Bologna. Mi ero procurato cinque o sei libri diversi: ciascuno la presentava in modo diverso, e ciascuno ne illuminava qualche aspetto. Ma l’unico coerente e chiaro era il vecchio libro di Dirac, scritto più di quarant’anni prima. Quel libro, che Dirac ha pubblicato a 28 anni, è la meccanica quantistica.
Il più grande trionfo di Dirac è però di qualche anno dopo. Il problema era descrivere l’elettrone in modo coerente non solo con la meccanica quantistica ma anche con la teoria della relatività speciale di Einstein (non la relatività generale, problema ancora aperto). Dirac si immerge più volte nel problema e alla fine trova un’equazione di impressionante semplicità che sembra avere tutte le caratteristiche giuste. Oggi si chiama l’equazione di Dirac. Però c’è un problema: l’equazione ha soluzioni che descrivono bene i movimenti di un elettrone, ma anche altre soluzioni che non si capiscono. Dirac, fiducioso nella bellezza dell’equazione, ne deduce che l’unica possibilità sia che in natura esista un’altra particella, una specie di sorella dell’elettrone, descritta da queste altre soluzioni. Questa "altra particella", a credere all’equazione, deve avere la stessa massa, ma carica elettrica opposta. Non solo, ma, predice Dirac, questa altra particella si può creare dal nulla insieme a un elettrone, con solo un po’ di energia; e se incontra un elettrone si annichila nel nulla insieme con questo, lasciando solo un lampo di luce. Al tempo, le uniche particelle note erano elettroni e protoni, che non ci pensavano nemmeno a crearsi e annichilarsi, e nessuno sospettava potessero esisterne altre. Tanto meno con comportamenti così bizzarri. E invece pochi anni dopo esattamente queste particelle, con questi comportamenti bizzarri, sono individuate nei raggi cosmici, e ben presto si comprende che sono ubique: ogni particella che conosciamo ha una "sorella opposta". Oggi la chiamiamo "antimateria". Dirac aveva compreso l’esistenza dell’antimateria, uno stato della realtà allora completamente sconosciuto, anni prima che questa fosse osservata, basandosi solo sulla meccanica quantistica, la relatività speciale di Einstein, e una cieca fede quasi Pitagorico-Platonica nella coerenza matematica della natura.
Eppure la matematica di Dirac è strana. E forse è questo che fa di lui un genio davvero grande. È matematica intuitiva. Molti matematici, e molti professori di fisica vi diranno che la matematica funziona perché è precisa e rigorosa. Ma non era così per Dirac. Dirac per esempio usa una funzione, oggi chiamata "funzione delta di Dirac", dicendo che vale zero dappertutto, eccetto in un punto dove è infinita. Un matematico vede subito che questa definizione è assurda. Il libro di Dirac è una sequenza di simboli che fanno inorridire i matematici, perché niente è definito per bene. Nei decenni successivi, grandi matematici, come von Neumann e Schwartz, ricostruiranno tutto per bene aggiungendo i molti dettagli mancanti. Ma a Dirac il rigore non importava. Era un ingegnere. Per lui la matematica era uno strumento duttile, non un fine. Se serviva matematica approssimativa per comprendere il mondo, tanto meglio. Gli ingegneri lo fanno di routine.
Immerso nel suo mondo lontano, Dirac ha attraversato il secolo come una luce per la scienza. Solitario e gigantesco, eterno fanciullo e in bilico fra il genio e l’ingenuità, Dirac appartiene alla generazione di cerniera fra i padri della fisica moderna, come Einstein e Bohr, e la nuova fisica delle particelle elementari, per i quali l’equazione di Dirac diventerà il punto di partenza e il pane quotidiano. «Di tutti i fisici, Dirac ha l’animo più puro» ha detto di lui il grande padre Bohr. La sua fisica è nitida e chiara come un canto. Per lui il mondo non è fatto di cose, è costituito di impalcature matematiche astratte, che ci dicono cosa appare e come si comporta ciò che appare. Un incontro magico di logica e intuizione. Anche Einstein ne rimase profondamente impressionato; di lui disse: «Ho problemi con Dirac. Procedere in equilibrio in questo vertiginoso cammino fra genio e pazzia è un’impresa terribile».
Nell’ultimo periodo della sua vita, mentre gli altri seguivano le vie aperte da lui, Dirac, sempre solitario, abbandona la fisica delle particelle e si concentra sulla relatività generale di Einstein, sulla grande questione di conciliare questa con la meccanica quantistica. Le strutture formali che definisce con questo obiettivo in mente, e la sua profonda riscrittura della teoria di Einstein, sono la base su cui si appoggia oggi il lavoro sulla gravità quantistica mio e dei miei colleghi.
La biografia di Graham Farmelo ripercorre le tappe di questo «vertiginoso cammino», come lo ha chiamato Einstein. Ne ricrea l’ambiente e lo spirito, senza entrare, se non di lontano, nella fisica vera e propria. A parte qualche svista, come quando Madame Wu, la più famosa donna della fisica delle particelle di questo secolo, è introdotta come «il grintoso e sicuro Chieng-Shiung Wu, nativo di Shanghai», e nonostante la lunghezza, il libro si legge scorrevolmente come un lungo racconto. Graham Farmelo ci restituisce l’umanità bella e nascosta di questo genio singolare, nella sua riservata intimità, e nelle sue poche interazioni con quello che è il mondo di tutti gli altri noi: una donna accanto a lui, incontrata tardi; qualche amico sincero, dal carattere opposto al suo, a cui Dirac rimase profondamente fedele tutta la vita; un sereno ateismo, convinto (la religione: «guazzabuglio di false affermazioni senza alcuna base reale») ma privato; una grande simpatia, sincera e anti-convenzionale, per il primo comunismo sovietico e una grande amicizia con la Russia, poi caduta all’invasione dell’Ungheria; le sole sue lacrime di cui si abbia notizia: quando seppe della morte di Albert Einstein.