Sergio Romano, Corriere della Sera 09/04/2013, 9 aprile 2013
LA CONSERVATRICE RIVOLUZIONARIA
Nel partito conservatore, di cui conquistò la guida nel 1975, Margaret Thatcher fu sempre un’irregolare. Non apparteneva alla fascia alta della società britannica, non aveva frequentato le grandi scuole, non aveva i gusti, i tic e le civetterie linguistiche di quel ceto sociale che gli inglesi chiamano establishment. E non era, soprattutto, «conservatrice». I suoi predecessori dopo la fine della Seconda guerra mondiale (Anthony Eden, Harold Macmillan, Alec Douglas-Home, Edward Heath) avevano accettato il lascito laburista dell’immediato dopoguerra, evitato gli scontri frontali con il sindacato e saggiamente accompagnato l’Impero, soprattutto dopo il fallimento della spedizione di Suez, lungo la strada del suo graduale declino. Uno di essi, Edward Heath, era persino convinto che le isole britanniche dovessero rinunciare al «gran largo» per trovare un solido ormeggio sulle coste dell’Europa.
Margaret Thatcher, invece, aveva il temperamento degli esploratori, degli avventurieri e dei corsari. Non andava d’accordo con Elisabetta II, probabilmente, perché la regina, con il suo impeccabile sussiego, era esattamente l’opposto della prima Elisabetta. Non era meno nazionalista dei suoi colleghi di partito, ma il suo patriottismo era popolare, se non addirittura populista. Ed era pronta, come qualcuno disse dell’Italia più di vent’anni fa, a rovesciare la Gran Bretagna come un calzino.
Il suo programma economico, quando entrò a Downing Street nel 1979, fu quello spregiudicatamente liberista di Milton Friedman, principe degli economisti dell’Università di Chicago. Tagliò drasticamente la spesa pubblica. Osò sfidare le élites accademiche di Oxford e Cambridge negando a quelle venerabili università i generosi aiuti di cui avevano goduto sino ad allora. Dopo una lunga battaglia con un sindacalista trozkista, Arthur Skargill, che era caratterialmente il suo gemello di sinistra, chiuse le miniere di carbone divenute ormai, nell’era degli idrocarburi e dell’atomo, relitti di archeologia industriale. Insieme alla guerra delle Falkland, vinta nel 1982, quella delle miniere le garantì un secondo successo elettorale nel 1983.
Non tutte le sue battaglie si conclusero con una vittoria. Al vertice europeo di Milano, nel giugno 1985, la sua tattica euroscettica non riuscì a prevalere sul fronte congiunto di Bettino Craxi, Helmut Kohl e François Mitterrand. La poll tax, una tassa comunale introdotta verso la fine del suo terzo mandato, provocò violente proteste di piazza. La privatizzazione delle ferrovie britanniche dette mediocri risultati. In alcune materie — soprattutto l’Europa e l’immigrazione — fu eccessivamente insulare. E cadde, alla fine, quando una parte importante del partito conservatore decise che la sua popolarità si era ormai appannata e che conveniva voltare pagina. Vi fu una lunga fase di reciproci malumori ma oggi, con lo sguardo lungo del tempo trascorso, sappiamo che lo svecchiamento dell’Inghilterra e la rinascita di Londra come capitale cosmopolita della finanza globale sono in buona parte il risultato del suo governo.
Questa storia contiene per noi una doppia lezione. Ci insegna che le buone democrazie sanno dare spazio ai grandi riformatori e che sanno mandarli a casa quando diventano meno utili al Paese.
Sergio Romano