Paolo Guzzanti, il Giornale 6/4/2013, 6 aprile 2013
QUANDO BEFFAVO POLITICI E STAMPA IMITANDO PERTINI E SCALFARI
Cruciani ha fatto benissimo a ingannare Onida con una falsa Margherita Hack. E lo dico da giornalista. I giornalisti, se sono in grado, devono far saltare i politici in padella anche usando voci contraffatte, cantando come sirene e nascondendosi dietro effetti speciali. Io l’ho fatto e lo rifarei. Non si trattava di «scherzi» telefonici. Odio gli scherzi, le burle, i passatempi dei buontemponi ridanciani. Ingannare -the art of deception, cara a LeCarré - è un’attività drammatica, talvolta farsesca ma più spesso tragica. Con la voce di Eugenio Scalfari, quando ero a Repubblica, mi esibii in un licenziamento con annessa scenata (via interfono) ma fu molto più vasto il programma di una notte di tregenda vissuta a casa di Giovanni Minoli con Ezio Mauro e un altro paio di malnati, durante la quale - io con la voce del presidente della Repubblica Sandro Pertini dettammo farsesche condizioni politiche a tutto lo stato maggiore dei partiti di allora, convocandoli poi a colazione al Quirinale il giorno dopo.
E si presentarono tutti con un lungo corteo di auto blu, benché io avessi usato espressioni surreali che avrebbero dovuto metterli in guardia. Avevo spiegato a ciascuno: «Ti lascio un passi nella garitta dei corazzieri» e «Vieni su al quarto piano», che non esiste. Ho già raccontato questa ed altre imprese in Senza più sognare il padre (Aliberti editore) che è anche la storia di un’epoca ormai tramontata. I politici erano il mio pane quotidiano. Avevo cominciato negli anni Sessanta a spacciarmi per il socialista Riccardo Lombardi e poi per il segretario del Psi Francesco De Martino. Craxi mi affascinava e ne facevo un’imitazione decente, ma non impeccabile, a differenza di quella che faceva Maurizio Sacconi che aveva colto gesti e pause collocandoli nel giusto spartito.
Avevo imparato che per ingannare bisogna sedurre e gratificare. Se fai la voce di un potente, la tua seduzione sarà apprezzata come una parola divina. Quando mi presentai telefonicamente a Renzo Arbore durante l’ultima puntata di Quelli della notte portando i torrenziali e sconclusionati saluti di Pertini («Anch’io ho apprezzato in esilio l’umorismo, quando mi facevo cappelli da muratore con le pagine del Canard Enchaîné») tutta l’Italia televisiva mi cadde ai piedi. Ciò che ingannava era proprio l’improbabilità quasi demenziale dei miei testi. Ci sono due modi di imitare i politici. Il primo modo è quello a fotocopia: rifai la voce e se sei dotato puoi essere scambiato per l’originale anche perché quel che dici si adatta al personaggio.
Il secondo modo è quello della «personification» che consiste nell’appropriarsi del soggetto prestandogli la tua anima e facendolo agire come una tua marionetta. Quella è l’arte. Restai del resto molto ammirato quando vidi le performance di mia figlia Sabina quando si trasformò in Massimo D’Alema e in Claudio Martelli, massacrando l’anima degli imitati. Sentii il filo genetico che ci univa. Naturalmente occorre essere portati, avere orecchio come per le lingue.
Io non parlo russo, ma so imitare a perfezione il suono globale di un discorso in russo e a una certa distanza, quando non si distinguono le consonanti, inganno anche i russi che pensano, percependomi da lontano, di udire qualche lontano dialetto patrio. Me la sono cavata anche con l’arabo usando, ai tempi delle guerre in Libano, non più di venti parole autentiche. In genere i politici sono anelastici, permalosi, vanitosi, hanno quasi sempre un certo grado di tracotanza e ignorano che cosa sia l’umiltà, anche se imparano alla svelta a fingere, a simulare un pensiero basico politicamente corretto, cioè ipocrita. Sono cioè casseforti penetrabili, se si usa la fiamma ossidrica adatta che li apre come il burro.
Alla Camera mi ero specializzato nelle avvocatesse meridionali, non importa se di destra o di sinistra, e nel linguaggio enfatico tipo presentazione della donna cannone. Imitare un deputato che legge gli appunti che gli hanno preparato e che lui non capisce, è un utile esercizio che permette di capire la superficialità politica e- in genere- la quasi totale assenza di qualsiasi forma di umorismo. Il politico raramente sa ridere e far ridere. I siciliani danno soddisfazioni diverse e particolari perché in genere usano un’enfasi perentoria, apodittica, specialmente se proclamano assolute banalità.
Infine: l’imitazione non è imitabile. Se ben condotta è come il cliché di quelle banconote che nessun contraffattore potrà ripetere. Le imitazioni condotte con spirito dispettoso e curioso, irrispettoso e distruttivo sono opere d’arte. Il difficile, per l’imitatore spietato, è distaccarsi da esse per tornare se stessi. Imitavo molto bene anche Cossiga e riuscii a spacciare su una piccola emittente un dialogo folle e incredibile fra lui e Pertini. Era talmente pazzesco quel che feci dir loro, che nessuno ebbe il minimo dubbio sulla veridicità di quel che fu detto.