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 2013  aprile 09 Martedì calendario

AL MERCATO DELL’USATO DOVE TUTTO SI PUO’ BARATTARE

Ride, sdentato. «Compro qui e rivendo nella mia bancarella a Souza nel fine settimana. I soldi, qui in Italia, ve li portiamo noi dall’Africa». Ride ancora e mostra l’anello d’oro il tunisino Filippo Maleel, commerciante pendolare tra la Sicilia e il suo Paese. Accanto a lui, fa cenni di assenso il conterraneo Ramzi: «I prezzi sono buoni anche per noi», dice accanto a un camioncino carico di vecchie reti, passeggini, giocattoli, materassi. Già, comprano in euro nell’ultimo lembo del Vecchio Continente e rivendono in dinari nel Maghreb perché conviene. Paradossale, ma è così, nel mercato dell’Albergheria di Palermo, che proprio dagli arabi fu fondato prima dell’anno Mille, diventato per decisione del sindaco Leoluca Orlando la prima «area di libero scambio» della città.

Un’isola di extraterritorialità dove si può barattare liberamente — senza scontrini, tasse e altre regole — e per baratto si intende anche la compravendita con piccole somme di denaro. Un modello che il Comune intende replicare in altri quartieri. L’utopia grillina, che però qui non ha niente di modaiolo. Ed è anzi un’incursione in un’Italia da film neorealista: con 50 centesimi si compra un vestito, con un euro un paio di scarpe, con pochi spiccioli carte da gioco, penne, vecchi libri, giocattoli, lacci, chiodi. Gran parte della merce proviene dai cassonetti: gli ambulanti cercano, selezionano, lavano e poi vendono.

Roba che si vedeva fino a 10 anni fa nell’Est europeo orfano del welfare socialista. C’è chi compra due scarponcini senza lacci e poi si mette alla caccia dei lacci con dieci centesimi in mano, chi scambia due giacche con un frullatore, chi si presenta alle sei del mattino per trovare il meglio e rivenderlo. La città, l’Italia degli invisibili.

L’area di libero scambio è un modo per regolarizzare gli ambulanti, circa 200, che si affollano sul marciapiede sin dall’alba per trovare il posto migliore. «Negli ultimi mesi sono arrivate un sacco di facce nuove», dice Salvatore Scalici, due figli, ex banconista di un bar del centro sacrificato sull’altare della crisi. Tre euro costa un vecchio lettore cd, cinque una bistecchiera: «se funzionano ci perdiamo, se non funzionano ci perde il cliente, non abbiamo il tempo di verificare», dice Grazia Santangelo, 55 anni, distinta e dignitosa, finita in questo girone degli ultimi dopo avere lavorato a lungo nell’assistenza, «ma adesso non c’è nessun’altra opportunità di lavoro, niente di niente».

Un mondo da Spoon River, di reduci di un’altra vita, clienti e ambulanti. «Ero muratore — dice Silvio Zarcone, 37 anni e tre figli piccoli — adesso sono qui a guadagnare 30 euro al giorno per tirare a campare». “«Io lavoravo nella pescheria di mio cognato, ma ha chiuso perché sono cominciati i lavori del tram e le macchine di lì non passano più», racconta Giuseppe Nicchia, 32 anni e due bambini.

Dall’altro lato della bancarella, una teoria di uomini e donne. C’è chi porta giocattoli, chi cappotti, chi scarpe, chi cornici, chi mobili sgangherati. Chi chiede un oggetto, chi contratta lo scambio. Qualcuno accetta, qualcuno no, qualcun altro regala e basta. «Ci si aiuta, se un giorno non hai niente da vendere o da scambiare, l’amico accanto ti dà qualcosa e ti dice: provaci tu», raccontano in tanti. Il confine tra merce e rifiuti è davvero sottile. A fine giornata un po’ di roba finisce nei cassonetti. Ecco allora che arrivano gli ultimi degli ultimi. A frugare ci sono Kajram Ljatifi e Valentina Castiglia, 20 anni, analfabeti. Lui, del Kosovo, non ha neanche un documento d’identità. «Se ci sposiamo me la danno la cittadinanza?», chiede tenendo in mano vecchi portachiavi pescati tra la spazzatura. Accanto a lui Filippo Librera, pensionato dell’azienda dei rifiuti. «Per questo con i cassonetti ho confidenza. E con 1.400 euro al mese non ci campo». Ma questa cifra, qui, sembra il tesoro di un re.