Alessandro Penati, Affari&Finanza, la Repubblica 8/4/2013, 8 aprile 2013
ENEL, FINMECCANICA, MEDIASET LA RITIRATA DEL CAPITALISMO
Eni ed Enel: i bronzi di Riace del capitalismo italiano. Sono gli ultimi giganti italiani: Telecom è decaduta nell’irrilevanza, Finmeccanica affogata in scandali e mala gestione, Fiat naturalizzata americana per sopravvivere. Considerate più bene pubblico che aziende, di qui il controllo statale. Vestigia di un’era di prosperità e munificenza ormai finita; e come i bronzi, aspirano a visibilità e rilevanza internazionale, ma sono relegati all’oblio in un museo di periferia.
In un’economia italiana relativamente chiusa alla globalizzazione e provinciale, Eni calca da sempre la scena internazionale, al punto che spesso si ha l’impressione che la Farnesina si sia trasferita all’Eur.
Enel, invece, per decenni ha rappresentato lo stereotipo del gigante sonnacchioso, disinteressato agli affari del mondo, in quanto monopolista a casa sua, e molto più attento alle vicende del palazzo romano.
Poi, però, per Enel è arrivata la stagione della privatizzazione, della quotazione in Borsa, delle liberalizzazioni, della concorrenza in casa e della cessione della rete. All’inizio Enel ha puntato su un nuovo ruolo di “campione nazionale” e “multi-utility”: gas, telefonia, impiantistica, immobiliare e, perfino, un tentativo con l’acqua. Una strategia che adesso sembra una fesseria, ma un accurato elenco dei consensi, politici e non, che raccoglieva allora creerebbe oggi non pochi imbarazzi. Sappiamo come è andata a finire: male.
Enel è quindi tornata al suo vecchio mestiere di produttore elettrico locale, ridimensionata dalla perdita del monopolio. Così nel 2005, il nuovo amministratore delegato Fulvio Conti, si è trovato a un bivio, per molti versi lo stesso di altre aziende italiane: rimanere locali, ridimensionandosi, tagliando i costi e ricercando continuamente l’efficienza per competere, oppure puntare sulle acquisizioni all’estero per crescere nel mondo? La seconda opzione sembrerebbe sempre preferibile: basta comperare aziende in paesi dove i margini sono elevati e la crescita assicurata per compensare le scarse prospettive del mercato italiano, evitando così di dover continuamente tagliare e ristrutturare a casa nostra per mantenere la redditività e competere.
Ma ciò che sembra ovvio, spesso non lo è. Quella che per Enel doveva essere una marcia trionfale prende sempre più le sembianze di una via crucis. Una vicenda da raccontare perché non diversa da quella di altre grandi aziende italiane che, forti in casa grazie a una posizione rilevante e un capitale di relazioni, hanno cercato la gloria, espandendosi con acquisizioni all’estero, ma hanno fatto troppi sbagli e sono entrate in crisi: Telecom, Finmeccanica, Rcs, Mediaset, Unicredit. Naturalmente, accanto a questi conquistadores all’amatriciana ci sono anche i casi di conquistadores veri: Luxottica, Autogrill, Terna, Prysmian o Lottomatica. Troppo poco per un paese di 60 milioni di abitanti.
Il primo errore dei conquistadores nostrani è strapagare: destino di chi pensa solo – anche se non lo dice – a diventare grande e non è abituato a rendere conto della redditività a un azionista esigente. Il secondo è fare la spesa nei paesi più opachi, meno aperti alla concorrenza dei capitali, dove le relazioni contano: insomma percepiti il più possibile simili all’Italia, forse ritenendo inconsciamente, ma sbagliando, che il successo a casa nostra sia un buon indicatore delle loro potenzialità oltre confine. Pertanto Spagna e America Latina, Russia ed Europa dell’Est sono le destinazioni degli investimenti dell’Enel; ma anche quelle preferite degli altri conquistadores nostrani. Ci sono sempre le eccezioni come Mediaset che, oltre a patire la crisi spagnola, ha fatto il bagno di sangue con l’acquisizione dell’olandese Endemol. Asia, Stati Uniti e paesi anglosassoni, che intercettano la maggioranza dei flussi di investimenti diretti e rappresentano 55% del Pil mondiale, rimangono off limits. Significativo che invece siano state proprio queste le mete dei pochi casi italiani di successo menzionati in prima. Ma anche qui c’è l’eccezione: Finmeccanica ha fatto il suo bagno di sangue con l’acquisizione dell’americana Drs.
In Russia, Enel sborsa 2,6 miliardi di euro per il 60% di OGK 5; il 100% in Borsa vale oggi la metà di quella cifra. In risposta alle mie critiche su queste colonne (12/2010), Enel giustificava il prezzo pagato facendo notare che altri avevano pagato anche di più: come se “mal comune mezzo gaudio” fosse un valido criterio gestionale. Oggi Enel lo giustifica evidenziando i margini più alti che in Italia e in crescita (vedi tabella): sacrosanto, ma la creazione di valore dipende comunque da quanto si è pagato per acquistarli. E l’acquisto era stato preceduto da uno strano episodio, anche questo sottolineato a suo tempo: assieme a Eni, Enel aveva rilevato le attività di Yukos (di Khodorkovskij caduto in disgrazia) rivendute solo due anni dopo a Gazprom, vicina “all’amico” Putin.
Ci sono poi gli investimenti in Slovacchia, che nella classifica mondiale della crescita nel 2011 occupava il posto numero 113 su 215; meglio dell’Italia (189), ma non certo una meta ovvia per investire. Ma il piatto forte arriva con la campagna di Spagna, la porta di un Sud America meta preferita degli italiani, dove Enel conquista Endesa. Ma, per comprarla, paga un pesante tributo al diktat di mantenere una facciata di “spagnolità”: accetta la partnership della spagnola Acciona, alla quale però vende un’opzione put per permetterle di uscire poco dopo, a un prezzo dell’80% superiore a quello di mercato.
Il terzo errore è fare la campagna acquisti con il debito, nell’illusione che costi poco (dimenticandosi il costo, enorme, delle ristrutturazioni che il debito comporta quando le cose vanno male) e sulla base di proiezioni ottimistiche sulla futura generazione di cassa. E di farlo quando la crisi finanziaria è alle porte e la bolla immobiliare in Spagna già evidente, con le ovvie conseguenze sulle prospettive di crescita del paese. Risultato: il debito Enel, al netto delle disponibilità liquide (esclusi i crediti finanziari), esplode da poco più di 12 miliardi a fine 2006 a 57 nel 2007 e un picco di 59 nel 2009 (vedi grafico). Ma chi, come me, a suo tempo criticava Enel per questo (21/2/2009) Conti rispondeva sicuro «… quel che conta davvero è se i flussi di cassa sono in grado di far fronte a questo aumento (del debito). E nel nostro caso è sicuramente così.» Sic.
Il quarto è di finanziare l’espansione a leva con alle spalle un azionista senza capitali, ma che non vuole cedere il controllo. Perché quando arriva l’ora di ridurre il debito, con l’incubo del declassamento del rating a “spazzatura”, la strada diventa ancora più impervia. Alla fine è arrivata anche per Enel l’ora del taglio dei costi, del personale e delle inefficienze in Italia (4 miliardi nel nuovo piano, di cui 1,5 di riduzione del costo del lavoro) troppo a lungo rinviati nell’illusione di poterli evitare grazie ai cash flow degli investimenti all’estero. Anche qui le similitudini con Telecom, Rcs, Mediaset o Unicredit sono evidenti.
La strada degli aumenti capitale per ridurre rapidamente il debito è preclusa o resa problematica dalla struttura proprietaria. Lo Stato per Enel e Finmeccanica, Telco per Telecom, il patto di sindacato per Rcs, le Fondazioni per Unicredit: azionisti squattrinati che però pretendono dividendi. Nel piano Enel, dei 32 miliardi di cassa disponibili previsti, solo 6 andranno a riduzione del debito, anche per poterne pagare 11 in dividendi (e 12,5 in interessi). Sembra il sequel di un film dell’orrore già visto in Telecom. Ci si inventa allora lo strumento ibrido (obbligazioni costosissime perché rischiose quasi come le azioni) che permette agli azionisti squattrinati di salvaguardare il controllo. Enel ha appena annunciato un ibrido da 5 miliardi che si stima costerà la bellezza di 550 punti di spread rispetto al tasso swap (costo di riferimento del denaro per le imprese) ovvero 150 punti più di un Btp a 30 anni; seguendo l’esempio di Telecom, disposta un mese fa a pagare la follia di 695 punti di spread. Ovvero, per ritirare il vecchio debito, avendo il divieto del socio di controllo di fare un aumento di capitale, se ne emette di nuovo, a costo maggiore. Basta chiamarlo ibrido e far finta che non sia debito e neppure capitale. Geniale; soprattutto per le banche di investimento che lo confezionano e incassano le commissioni.
Rimane la strada delle cessioni per abbattere il debito. Ma non si possono vendere le costose acquisizioni fatte, come le attività iberiche di Endesa, per non fare emergere minusvalenze da shock e spazzare via gli enormi avviamenti che gonfiano gli attivi: 18 miliardi per Enel, 1 miliardo per Mediaset, 32 miliardi per Telecom, quasi 6 per Finmeccanica e 12 per Unicredit.
Enel non può fare dismissioni importanti in Italia, mercato stagnante e dai margini in declino ormai consolidato, per riposizionarsi all’estero dove la redditività è più elevata, come logica vorrebbe, perché le ragioni dell’economia non si applicano ai bronzi di Riace. Nè si applicano a Rcs, Telecom, Mediaset o Unicredit dove, dietro lo schermo della difesa dell’italianità, si vede la paura di perdere quel capitale di relazioni su cui hanno costruito la loro fortuna ma che, nel declino apparentemente irreversibile in cui è caduta l’Italia, varrà sempre di meno. Non si possono toccare i monumenti, come l’immobile di via Solferino per Rcs. Né le attività nei paesi ad alti margini per incassare il più possibile e ridurre il debito (Slovacchia e Russia per Enel, Brasile per Telecom), perché si tornerebbe a concentrarsi su un mercato domestico stagnante. Così, dopo cinque anni di crisi, si continua a scegliere la strada dei piccoli passi, nessuno risolutivo. Contando sull’arrivo, prima o poi, della ripresa e del boom di Borsa che si porterà via tutti i problemi e cancellerà le magagne del passato. E se invece ci aspettasse un futuro alla giapponese?
Enel pianifica 6 miliardi di dismissioni nei prossimi anni, a fronte di circa 45 miliardi di debiti accumulati per finanziare l’impero: una goccia nel mare. Si utilizzano anche escamotage, come è stata la cessione sul mercato di un pezzo di Green Power, per far cassa sfruttando il fascino dell’energia rinnovabile sulle valutazioni di Borsa. Ma poi ci si accorge che così si perde anche un pezzo del margine operativo, indispensabile, invece, per sostenere il debito che non si riesce a ripagare. Ed ecco che nel piano Enel spuntano 8,5 miliardi destinati a riacquistare quote di minoranza (quali?): ovvero 8,5 miliardi di nuove acquisizioni a fronte di 6 di dismissioni previste. Incredibile, ma vero. Come Telecom, che vorrebbe vendere una quota della rete per fare cassa e ridurre il debito, ma senza perderne il controllo e trattenendo la maggior quantità dei cash flow che produce. O Mediaset, che si è ricomprata una parte delle torri di trasmissione frutto di uno spin off (fondendole con le sue in Dmt) perché ha bisogno di questi cash flow per sostenere il bilancio e il debito che si sta accumulando.
Il risultato di questa lentezza nel rispondere alla crisi e riparare agli errori del passato è che il titolo Enel in Borsa segue inesorabilmente l’Italia nel suo declino (e così i titoli di tutti gli altri conquistadores all’amatriciana). Enel viene oggi valutata con uno sconto che varia dal 15% circa al 35% a seconda della metrica utilizzata (patrimonio netto, enterprise value, utili prima del goodwill) rispetto alla media dei concorrenti europei (Centrica, Edf, Gdf Suez, Iberdrola, E.On, Rwe, Fortum). Così 100 euro investiti nel lontano 1999, al tempo del suo tanto pubblicizzato sbarco a Piazza Affari, ne valgono oggi 86, includendo i dividendi. C’è chi, in Italia, ha fatto molto peggio, come le banche, che hanno contribuito a ridurre il valore del nostro indice in questo periodo da 100 a 44 euro (vedi grafico). Più che una consolazione per Enel è un segno tangibile della distruzione di ricchezza che si è avuta in questo paese. E a pagare è sempre il risparmiatore.