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 2013  aprile 08 Lunedì calendario

IL CODICE DECAMERON


Una leggenda vuole che Giovanni Boccaccio fosse un ladro. Una leggenda condita da un’immagine: lo scrittore che fugge trafelato lungo le scale dell’abbazia di Montecassino nascondendo sotto l’ampia veste uno, forse due o addirittura tre codici sottratti a quella biblioteca. Non aveva altro scopo, l’autore del Decameron, che quello di attingere alle storie e alla lingua del mondo classico – Cicerone, Vitruvio, Tacito… – ma un ladro è un ladro. Fu Giuseppe Billanovich, fra i grandi filologi del Novecento, ad accertare che solo di leggenda si trattava e che nessun indizio deponeva a carico di un Boccaccio predatore di manoscritti.
Eppure quella di Boccaccio e dei manoscritti da lui posseduti e da lui stesso copiati e sistemati nella sua biblioteca, del Boccaccio che si faceva editore di testi latini e volgari e che tanta cura dedicava alla forma del libro è una delle storie più attraenti fra quelle che lo scrittore del Decameron abbia depositato negli annali della letteratura italiana. Una delle storie che si sta arricchendo di sorprendenti scoperte, realizzate tutte da giovani ricercatori, una specie di pattuglia di segugi che rende lustro alle celebrazioni del settecentesimo anniversario della nascita dello scrittore che occuperanno tutto il 2013 (Boccaccio, secondo diverse fonti, nacque a Certaldo fra il giugno e il luglio del 1313).
La più recente di queste scoperte è dei mesi scorsi. Laura Pani, paleografa dell’università di Udine, ha trovato alla British Library di Londra un manoscritto contenente l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, un’opera risalente alla fine dell’VIII secolo. Laura Pani è una studiosa di Paolo Diacono, del quale rincorre i manoscritti nelle biblioteche di tutta Europa. Ma quel testo londinese ha qualcosa di speciale. È un volumetto di pochi fogli, 32, e di piccole dimensioni, 21 centimetri per 13. Sotto gli occhi di molti studiosi per secoli, ampiamente studiato, ha però tenuto nascosto il suo più profondo pregio. È di mano di Boccaccio, pezzo mancante di un più corposo manoscritto, in gran parte sempre autografo di Boccaccio, conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze. Laura Pani se n’è accorta perché il testo londinese comincia dove finisce quello fiorentino e perché la grafia è senza dubbio quella dello scrittore di Certaldo. Ora si procederà a un restauro virtuale (la parte londinese non tornerà a Firenze). Ma almeno uno dei misteri della biblioteca di Boccaccio è stato chiarito.
Sono emersi anche rilievi filologici. Racconta Laura Pani: «Nel copiare La storia dei longobardi Boccaccio non segue fedelmente il testo, alcuni capitoli li omette, altri li sintetizza, alcuni passaggi, invece, li amplifica». Perché? «Non è ancora chiaro. Però a margine della descrizione di un’epidemia di peste del VI secolo annota che un simile flagello si abbatté a Firenze nel 1348. Ed è noto che la peste raccontata nel Decameron trae ispirazione anche da Paolo Diacono».
Altra scena. Altro paese. Toledo, Spagna. Luglio 2012. Due paleografi italiani, Sandro Bertelli e Marco Cursi (il primo insegna a Ferrara, il secondo a Roma) compulsano un altro manoscritto redatto da Boccaccio. Già conosciuto dagli studiosi. Il volume contiene diverse opere e anche la Commedia di Dante. Nell’ultimo foglio, bianco, si leggono appena due parole: “poeta” e “sov”. Sembra una prova di penna. Più sotto, però, si scorge una linea sottile che traccia un singolare percorso. I paleografi hanno con sé una lampada Wood, un attrezzo che emette raggi ultravioletti in grado di rendere visibili i pigmenti di un inchiostro svanito. Roba da detective. Con cautela piazzano la lampada al di là del foglio ed ecco comparire una testa di profilo, sormontata da una corona d’alloro. La luce blu completa anche la scritta: «Homero poeta sovrano»: una specie di didascalia, in realtà una citazione dal canto IV dell’Inferno.
Boccaccio prosatore, Boccaccio umanista, Boccaccio copista ed editore: ora anche Boccaccio disegnatore? «Che Boccaccio disegnasse non è una novità, se n’è occupato il filologo Maurizio Fiorilla, che ha dimostrato come fosse di Boccaccio persino un disegno di Valchiusa in Provenza su un codice di Petrarca», dice Cursi. «A volte, a margine dei suoi manoscritti traccia una manina con l’indice puntato che gli serve per evidenziare un passaggio. O delle testine che raffigurano personaggi del Decameron... Mai però era stato rinvenuto un disegno così grande, che riempie quasi una pagina».
La testa di Omero è ritornata nel buio da dove veniva. Senza lampada di Wood non è visibile. Ma qualche tempo prima un altro ricercatore, Marco Petoletti, docente alla Cattolica di Milano, aveva rintracciato una testa molto simile a quella di Omero, più piccola di quella toledana. Anche la scoperta di Petoletti merita di essere segnalata: in un fondo della Biblioteca Ambrosiana di Milano ha rinvenuto un codice contenente gli Epigrammi e altre opere di Marziale tutto di mano di Boccaccio. Evento eccezionale in sé. Ma reso ancor più sorprendente dalle annotazioni a margine. Boccaccio disegna teste (un Seneca, ad esempio), ed esprime consenso e dissenso nei confronti del poeta latino considerato un campione di versificazione popolare, non solo, ma anche di facezie e di scurrilità. Accanto alla descrizione dello scaltro Filomuso, Boccaccio scrive: “Frate Cipolla”, richiamando l’astuto e truffaldino fratacchione protagonista di una celebre novella del Decameron. Ma quando Marziale enuncia il proprio realistico canone poetico – «Hominem pagina nostra sapit», la nostra pagina ha il sapore dell’uomo – lui sbotta senza remore: «Verum sapit hominem, dum cunnum lingere, futuire et cacare et alia scribit», chiudendo con un’invettiva: «Maledicatur poeta talis». E non bastandogli la maledizione e la censura delle parole che indicano l’organo femminile, l’atto sessuale e quello del defecare, aggiunge anche il disegno di una mano protesa in un gestaccio.
Maddalena Signorini è un’altra delle paleografe che si dedicano a ricomporre la biblioteca di Boccaccio. Come Cursi, è allieva di Armando Petrucci, maestro di tantissimi studiosi e fra i primi a segnalare quanto Boccaccio mettesse cura all’elemento materiale del libro, che deve aderire al contenuto. Lo scrittore si fa forte di competenze sia grafiche (il tipo di scrittura: dalla mercatesca usata dai mercanti fino alla ricca gotica) sia di confezionatore di libri (da quello di piccole dimensioni a quello da banco) o di vero editore, che si impegna a compilare antologie dantesco-petrarchesche da far circolare con la stessa dignità dei classici latini. Signorini cerca di capire quanto grande fosse la biblioteca dello scrittore. Al momento identifica con sicurezza 31 manoscritti appartenuti a Boccaccio, un patrimonio di grande rilievo, ma inferiore rispetto alla consistenza che si può supporre (Petrarca ne possedeva 65). Lo scrittore di Certaldo, calcola Signorini, ha copiato di sua mano almeno 18 di quei 31 manoscritti, un po’ perché ci teneva alla cura del testo, un po’ perché non aveva gli stessi mezzi di Petrarca, che invece poteva permettersi un proprio copista per confezionare il suo Canzoniere (Boccaccio invece trascrisse tutto il Decameron nel codice Hamilton, custodito a Berlino e a lui attribuito con certezza nel 1962 da Vittore Branca).
Dove possono essere gli altri libri appartenuti a Boccaccio? Perché, si domanda Signorini, mancano del tutto opere religiose? Quando morì, nel 1375, lo scrittore lasciò la sua biblioteca all’amico frate Martino da Signa affinché la devolvesse al convento agostiniano di Santo Spirito a Firenze. Molti libri andarono in diverse collocazioni, altri negli anni si dispersero e finirono un po’ ovunque, come dimostrano i ritrovamenti di Toledo e di Londra. Altro dato certo: si sa che Boccaccio possedeva libri di autori molto diversi fra loro, meno selezionati di quelli che custodiva Petrarca. Tanti quesiti, altrettante ipotesi, molti filoni di ricerca. I risultati raggiunti negli ultimi anni confortano. Ma i paleografi non sono studiosi facili agli entusiasmi o alle illusioni. La caccia continua.