Massimo Vincenzi, la Repubblica 8/4/2013, 8 aprile 2013
IL RAZZISMO FUORI CAMPO
[Jackie ROBINSON]
I due ragazzini che oggi battono e corrono sul pratone tra Greenpoint e Williamsburg indossano entrambi la stessa maglia: quella vintage dei Dodgers con il 42. Il numero di Jackie Robinson, il primo giocatore di baseball che il 15 aprile del 1947 ruppe la barriera razziale della Major League debuttando con la squadra di Brooklyn. Venerdì, qualche giorno prima dell’anniversario, uscirà negli Stati Uniti il film che Hollywood gli ha dedicato (42, appunto), con Chadwick Boseman nel ruolo del giocatore (morto a soli 53 anni nel 1972) e Harrison Ford in quello del suo mentore, il general manager Branch Rickey. In vetrina da Barnes and Noble ci sono le sue biografie, e il volume della collana scolastica Who was (chi era…), che racconta la sua vita, è tornato ai primi posti della classifica dei libri per bambini. Le tv gli dedicano programmi speciali dove lo sport e la politica si fondono.
La famiglia Obama, che l’ha visto in anteprima insieme agli attori e a Rachel, la 90enne moglie di Robinson, si è commossa perché «fa male rivivere quel periodo buio della nostra storia e anche se la segregazione non c’è più, dobbiamo sempre ricordare quel che era l’America solo cinquant’anni fa e insegnare ai nostri figli a combattere sempre il razzismo».
In “quel periodo buio” , tra i Quaranta e i Cinquanta, la scritta “Withes only”, solo bianchi, è dappertutto e il baseball non fa eccezione. Gli afroamericani hanno il loro campionato, la Negro League e gli spettatori di colore, che assistono alle partite della Major League, non possono neppure sedersi in tribuna assieme agli altri, ma stanno per terra, sui prati rialzati intorno allo stadio.
Ed è «questo mondo di bianchi per bianchi» che Branch Rickey rivoluziona chiamando Robinson nei Dodgers: «Ti ho visto giocare, sei molto bravo, solo questo conta», gli dice Harrison Ford per convincerlo a firmare il contratto. In realtà non conta solo questo e prima di arrivare nella Hall of fame il vero Jackie deve faticare parecchio. C’è una scena nel film dove lui è in piedi sul diamante, immobile, lo sguardo inchiodato sul niente mentre tutto attorno lo stadio ulula e lancia oggetti contro di lui. L’allenatore della squadra avversaria gli va ancora più vicino, mette la faccia ad un millimetro dalla sua gli sputa altri insulti, ancora più violenti. «Nel film abbiamo usato un linguaggio più morbido rispetto all’episodio vero», racconta il regista Brian Helgeland, premio Oscar per LA Confidential. «È una scena che a rivederla fa ancora troppo male», scrivono alcuni critici. Ma, in quell’attimo infinito, non reagendo Robinson inizia a vincere la sua partita.
«Per fortuna io di quei momenti ricordo solo i baci e la calma della nostra casa», dice in un’intervista al Los Angeles Times la moglie Rachel. «Nei primi mesi Jackie tornava dalle partite e dagli allenamenti distrutto, tutti lo attaccavano. Lo sport che lui amava così tanto lo respingeva e gli ricordava in ogni momento che non c’era posto per lui. I tifosi, i compagni di squadra, gli avversari e persino la polizia. Allora noi chiudevamo la nostra porta e lasciavamo quel mondo fuori, ci facevamo coraggio. Sono contenta del film, la battaglia che mio marito ha vinto è un esempio per i più giovani».
E la battaglia più dura Robinson la combatte all’interno della squadra dove non c’è alcuna solidarietà: i compagni non lo accettano, gli buttano per terra i vestiti nello spogliatoio, gli chiedono se è «americano o negro» . Tanto che deve intervenire l’allenatore dei Dodgers, con un discorso diventato famoso: «A me non importa se il ragazzo è giallo o nero, o se ha le strisce come una zebra. Qui comando io e lui gioca. C’è dell’altro, io dico anche che lui ci può rendere tutti ricchi. E se qualcuno di voi non ha bisogno di soldi, farò in modo di metterlo sul mercato. Basta che mi avvisiate». Nessuno parla. E qualche anno dopo, Robinson ricordando quell’episodio dice: «Non erano tutti contro di me, ma certo la maggior parte sì. Però quando iniziammo a vincere il loro atteggiamento cambiò. Non tanto per convinzione ma per i dollari che potevano ottenere con me».
Cinico, per niente sognatore e pure complesso, tanto che recensendo il film, il New York Times ne contesta la lettura “mitologica”. Robinson è un personaggio controverso: è diventato un simbolo e ha lottato per i diritti dei neri, ma soprattutto è stato un giocatore di baseball. Quello gli importava: vincere. Repubblicano convinto, sostiene con forza la campagna elettorale di Nixon anche se poi apprezza diverse volte in pubblico Kennedy per il suo impegno nella lotta alla segregazione.
Ma Hollywood non è il regno delle sfumature e il mito si gonfia, diventa barocco, epico, come nel dialogo più bello del film, quello tra Harrison Ford/Branch Rickey e il general manager di una squadra rivale: «Credi che a Dio piaccia il baseball? Che vuoi dire? Dico che un giorno lo incontrerai e quando ti chiederà perché non sei sceso in campo contro Robinson e tu risponderai perché è un negro, non sarà una risposta sufficiente ». Robinson gioca quella partita e quelle successive aiutando, battuta dopo battuta, balzo dopo balzo l’America ad essere un paese migliore.
Massimo Vincenzi