Natalia Aspesi, la Repubblica 8/4/2013, 8 aprile 2013
LAGERFELD: “COSÌ VI FACCIO DESIDERARE IL SUPERFLUO”
DI COLPO, nel buio lucente e sepolcrale che piace alla moda, si alza un brusio, l’aria si fa quasi tempestosa, si forma una piccola corte di giovani donne vestite di nero, cartelline strette sotto le ascelle, che corre compatta e affannata: LUI è arrivato, fende veloce lo spazio, e loro dietro, smarrite.
Appena uno sguardo alle pareti della rotonda della Besana, da cui lo fissano le donne più interessanti del mondo, i bambini più aristocratici, i maschi più allettanti, nel centinaio di grandi fotografie della mostra “The little black jacket”, (riunite in un bel libro edito da Steidl), una sontuosa celebrazione del marchio Chanel, usando “la giacchettina nera” inventata dalla ultradefunta Mademoiselle e indossata da tutti questi umani per qualche ragione famosi: e che l’estro impaziente di Karl Lagerfeld, nella versione fotografo, ha adattato a una resurrezione prestigiosa, con la collaborazione all’immagine di Carine Roitfeld, che solo a nominarla la gente della moda si inchina delirante, marchiandola con quel loro insipido e antipatico appellativo: icona! In questo senso Karl Lagerfeld è un’iconissima, anche solo a guardarlo: apparentemente incorporeo e scattante, senza età, eternizzato dal suo rifiuto del tempo, dalla trasfigurazione con ogni artificio, disciplina e sacrificio della sua immagine (nel 2001 riuscì a perdere una cinquantina di chili) e dalla sua smania di contemporaneità, giacca nera che svolazza sui jeans, camicia dall’alto collo (che dicono intercambiabile) che gli arriva al mento; i soliti occhiali neri da miope che però si toglie elegantemente per parlare, i capelli bianco luce a coda di cavallo, e gli eterni guantini a buchi che gli lasciano libere le falangi dalle unghie squadrate. Con cui a stupefacente velocità batte subito su un piccolo iPad e un iPhone: «D’oro massiccio tutti e due, sono un omaggio della Apple per una mia collaborazione. E io li ho ringraziati con questo». Tic. tac. tac sul cellulare, ed ecco il viso triste di Steve Jobs su fondo azzurro, datato novembre 2011, un mese dopo la morte: «L’ho disegnato a memoria, in un baleno».
In Italia lei viene spesso perché è il direttore creativo di Fendi; cosa pensa della nostra situazione politica ed economica?
«È un gran pasticcio, la seguo dai telegiornali francesi, però guardi qui». Tic. tac. tac, e sul tablet appare una caricatura. «L’ho disegnata per un giornale tedesco, è intitolata La Commedia dell’Arte, questo è Pantalone-Berlusconi, questo Brighella-Grillo. Non è un bel momento. Neppure in Francia, dove oltretutto si è persa la sua massima preziosa virtù, il dono della leggerezza, della conversazione brillante, dell’ironia intelligente che regnava ai tempi di Voltaire, di Madame du Deffant. Oggi se dici una cosa che non sia noiosa e politicamente corretta, subito si scatenano ancor più noiose e scorrette polemiche».
E del nuovo Papa Francesco cosa pensa?
«L’altro mi era antipatico, questo mi pare meglio, lo chiamerei il papa dei poveri. Ma io sono completamente agnostico, anche se adoro la religione, e penso che il cattolicesimo sia stato una buona invenzione, soprattutto perché in passato ha portato la cultura negli angoli più lontani e abbandonati del mondo. Mi piace leggerne i testi famosi, per esempio le opere di Bossuet».
Che era il predicatore di corte di Luigi XV, un teologo sostenitore dell’assolutismo reale per diritto divino. Come è assolutista la venerazione che l’inguaribile popolo della frivolezza e del lusso ha per Karl, di cui teme la cultura enciclopedica, «iniziata a 6 anni in Germania dove sono nato, quando già recitavo a memoria tutto Racine».
In tempi difficili come questi, non ha qualche dubbio su questa frivolezza, su questo lusso, diciamo su questo spreco di pochi in un mondo dove milioni di persone, solo in Italia più di 4 milioni, sono schiacciati dalla povertà?
«Io benedico il fatto che esista ancora un mondo di grande opulenza, di grandi ricchi che vivono in Paesi emergenti e lontani, che sanno come il vero lusso sia quello europeo: perché solo nel nostro vecchio continente, in Francia, in Italia, esistono ancora i grandi artigiani, gli artisti del cuoio, del tessuto, del ricamo, i maestri della squisitezza formale, della grazia creativa. Sono quei nuovi ricchissimi a dare lavoro a questa meravigliosa industria della cultura manuale che se no sparirebbe. In Francia è già successo, quando Luigi XIV revocò l’editto di Nantes che permetteva la fede protestante. Pur di non essere costretti a convertirsi al cattolicesimo, più di 200mila francesi emigrarono, ed erano per la maggior parte magnifici artigiani. Fu la rovina per l’economia dell’epoca».
Lei è direttore creativo a vita di Chanel dal 1983 e di Fendi dal 1965, ha appena aperto il primo di 50 negozi a suo nome, improvvisa altre collaborazioni lampo. Come riesce a non copiarsi?
«Ma è semplice, io non ho nulla da dire di epocale, amo solo il mio lavoro, e mi adatto come un camaleonte alle necessità del marchio: Fendi deve dare una visione dell’Italia moderna e dinamica e mi offre la preziosa collaborazione di Silvia, talento della famiglia Fendi, Chanel quello dell’eterna suprema eleganza francese. Il mio solo compito è creare desiderio per ciò che non è necessario».
Nel documentario tv, “Lagerfeld confidentiel”, tra l’altro lei racconta del suo bisogno di solitudine. Come riesce col suo lavoro e la sua fama a liberarsi degli altri?
«Il personale di casa abita in un appartamento attiguo e si materializza solo quando non ci sono. Io non potrei mai lavorare, soprattutto leggere, se non fossi completamente solo. Detesto la vita di tipo coniugale e ho un solo grande amore, la mia gattina: è una presenza meravigliosa, morbida, sfuggente, soprattutto silenziosa ». Tic tac tac, ed ecco sul tablet un fiume di foto dell’incantevole Choupette, «una gatta birmana color crema, con le orecchie che paiono di zucchero caramellato, e gli occhi immensi color topazio: capricciosa, buffa, viziata, quando sono via mi arrivano ogni giorno sue foto». Se no, quando Karl è a Parigi, mangiano allo stesso tavolo, loro due soli, tovaglia bianca e piatti d’argento; e di notte il gatto si acciambella tra i candidi lini appena stirati del lettone padronale.
Quando il suo lavoro si confronta con quello dei collaboratori, e un suo schizzo diventa un vestito?
«Talvolta vado in ufficio nel pomeriggio: io mi occupo dei risultati, non tocco mai un abito, lo fanno gli specialisti con i miei suggerimenti. Poi non voglio sapere altro, di vendite, di business, soprattutto della cosa che detesto di più, il marketing. Io sono un mercenario, pagato ad onorario fisso».
L’hotel particulier di rue de l’Universitè dove abitava in passato era occupato da sontuosi reperti del XVIII secolo, adesso come ha arredato la nuova casa in quai Voltaire?
«A parte i 300mila libri impilati un po’ dovunque, ho solo mobili contemporanei dell’ultima ora, per esempio di Martin Szekely e di Marc Newson: sono anche un cliente di Cassina e per la prima volta mi sono divertito a creare un’istallazione fotografica con i loro pezzi, di Le Corbusier, di Albini, già esposta a Parigi. A Milano sarà nel negozio Cassina durante il Salone del Mobile. Ma io non mi affeziono per sempre, agli oggetti, e neppure alle persone. Agli amici chiedo reciprocità, se l’altro non è all’altezza, è finita; ritengo superfluo perdonare, preferisco dimenticare».