Pietro Del Re, la Repubblica 7/4/2013, 7 aprile 2013
DAL VALICO TURCO AL TERRENO DI GUERRA COSÌ I REPORTER RACCONTANO LA RIVOLTA
È raccapricciante lo scenario che ti accoglie in Siria quando provieni dal valico di frontiera turco di Kyllis. Dopo poche centinaia di metri, sul lato destro della strada, si erge ciò che rimane di una grande moschea che un anno fu centrata dalla bomba di un caccia del regime di Damasco. Davanti a questo ammasso di pietre, arrugginiscono un paio di carri armati colpiti a loro volta dalle forze d´opposizione. Anche se oggi, grazie ai fondi dell´Occidente e dei Paesi del Golfo, in quella parte di Siria conquistata dall´Esercito siriano libero si ricostruisce un po´ ovunque, nessuno mette mani a quelle rovine. È come se gli abitanti del luogo volessero lasciarle tali a futura memoria. Un po´ come è accaduto alla Gedächtniskirche, la chiesa del quartiere berlinese di Charlottenburg, che fu distrutta dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, e che non è più stata riedificata per offrire ai posteri una testimonianza degli orrori della guerra.
È dal valico di Kyllis che sono passati i quattro giornalisti italiani fermati tre giorni fa da un gruppo di combattenti islamici. Susan Dabbous, Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali arrivavano dalla turca Antiochia, prima tappa dei pochi reporter del mondo intero che raccontano questa guerra cruentissima. Dall´antica città romana al confine con la Siria, ci vogliono due ore di macchina, lungo una regione di dolci colline ricoperte di uliveti. Questa campagna toscaneggiante è l´ultima immagine che lasci prima di entrare nell´inferno siriano, e la prima che ritrovi appena riattraversi la frontiera.
Ieri, all´apertura del Forum euro-mediterraneo della Fondazione Anna Lindh, la giornalista siriano-polacca Rima Marrouch ha detto ciò che pensano gli inviati che oltrepassano quel valico: per via dei rischi di rapimenti o, peggio, del piombo che piove dal cielo, lavorare in Siria è difficile e pericoloso «ma è cruciale poter coprire la storia, ed è ancora maggiore l´obbligo morale di trovarsi sul terreno». Queste parole avrebbe potute pronunciarle la giovane collega Susan Dabbous che, proprio come la Marrouch, segue da mesi il conflitto siriano da Beirut e che come lei ha già coraggiosamente attraversato il valico di Kyllis più d´una volta.
Ma si pongono anche altri problemi a chi intende coprire questa guerra. Consistono nella difficoltà di movimento, e nel fatto che sei sempre tributario di una guida locale, sempre legata a qualche brigata di insorti. Il conflitto dura da ormai due anni, e chiunque, pur di parlare due parole d´inglese, può improvvisarsi guida. Scortare per un paio di giorni in quel Paese devastato un giornalista, soprattutto se questo è televisivo e anglosassone, può consentire di sbarcare il lunario per un mese a un giovane siriano esule in Turchia perché ricercato dalla polizia di Damasco o di Latakia. Gli basta presentarsi al comando di un qualsiasi gruppo di ribelli, e ottenere protezione per il reporter di turno, dopo aver promesso la copertura mediatica di una battaglia.
Perciò, le variabili o meglio i rischi, sono infiniti. Molto dipende infatti in quali mani finisci. Può capitarti il battaglione perfettamente inquadrato da un comando militare "secolare", che riceve ordini da qualche generale disertore dell´esercito regolare, rifugiato magari oltre confine. Ma puoi anche imbatterti in un gruppo di giovani ribelli senza capi né gerarchie, che combattono alla cieca, senza disciplina, e per i quali sei solo un impaccio. Puoi, infine, ritrovarti tra quei jihadisti più radicali e intransigenti. Anche se questa possibilità è decisamente più rara.