Maura Gualco; Vincenzo Nigro, la Repubblica 6/4/2013, 6 aprile 2013
I MARÒ E I PESCATORI INDIANI QUEI 33 MINUTI DI TERRORE ECCO LA VERITÀ DEGLI ITALIANI
Dall’11 maggio del 2012 il governo italiano è in possesso di una “Inchiesta sommaria” sull’incidente della Enrica Lexie che ha visto coinvolti i Marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Il rapporto dettagliato è dell’ammiraglio Alessandro Piroli, allora capo del terzo reparto della Marina, l’ufficiale più alto in grado inviato in India subito dopo l’incidente. Piroli elenca i fatti, le prove, le ipotesi note in quel momento sulla morte dei due pescatori. Un’inchiesta che non accusa, non contesta, ma elenca fatti o perlomeno versioni di fatti. E che riporta, nero su bianco, anche i risultati delle perizie balistiche indiane, secondo cui il calibro dei proiettili ritrovati nei corpi dei pescatori uccisi è il 5,56 Nato, e le armi che hanno sparato non sono quelle di Girone e Latorre, ma quelle di altri due marò che erano a bordo della Lexie.
Sono le ore 12 quando «in acque internazionali, a circa 20 miglia dalla costa indiana, secondo quanto riportato dal giornale di bordo di Nave Lexie …. Latorre e il sergente Girone sono stati allertati per la scoperta al radar di una piccola imbarcazione…». L’avvistamento avviene alle 11,55 (ora indiana 16,25), a sole 2,8 miglia dal mercantile, che fino al momento non si era accorto di nulla. L’equipaggio calcola che il battello sia in rotta di collisione con la petroliera. Quando il peschereccio è ad 800 metri dalla Lexie iniziano le prime segnalazioni luminose. «Latorre ed il sergente Girone si adoperano per effettuare segnalazioni luminose sicuramente visibili dall’esterno — si legge nel rapporto — e mostrano in maniera evidente le armi al di sopra del loro capo». L’imbarcazione non cambia rotta e procede dritta contro la Enrica Lexie. Raggiungendo i 500 metri di distanza.
Il dubbio, dichiareranno poi i due marò, per loro diventa una certezza: sono pirati. Anche il comandante Umberto Vitelli, ne è convinto. «Il comandante della nave attiva l’allarme generale, al quale sono combinati anche i segnali sonori antinebbia (sirene), avvisa via interfono l’equipaggio che si tratta di un attacco pirata».
E’ a quel punto che «Latorre e Girone sparano le prime due raffiche di avvertimento in acqua». Il natante si avvicina ancora. Il sospetto che si tratti di pirati si fa ancora più concreto quando le due imbarcazioni si trovano a 300 metri l’una dall’altra ed in continuo avvicinamento. A questo punto un evento decisivo: «Girone identifica otticamente tramite binocolo la presenza di persone armate a bordo del motopesca. In particolare si accorge che almeno due dei membri dell’equipaggio sono dotati di armamento a canna lunga portato a tracolla con una postura evidentemente tesa ad effettuare un abbordaggio della nave. Latorre esegue la terza raffica di avvertimento in acqua, costituita da quattro proiettili».
Non ci sono maggiori dettagli né sul tipo di armi che si è ritenuto di individuare, e neppure su cosa sia la “postura tesa ad effettuare l’abbordaggio”. Ma da quel momento in poi chiaramente il Nucleo militare è in massimo allarme. Il peschereccio non accenna a cambiare rotta. Anzi continua ad avvicinarsi fino a raggiungere una distanza di 100 metri, puntando al centro della nave. A quel punto i due marò riferiranno all’ammiraglio Piroli di aver sparato l’ultima raffica, ancora una volta in mare (non sui pescatori-pirati), quando soltanto 50 metri separano la petroliera dal St. Antony. Ed ecco che finalmente il peschereccio sfila verso il mare aperto.
Piroli però riporta poi il racconto dell’unico testimone del St.Anthony, Freddy, il proprietario. Il quale spiega alla polizia del Kerala «di essersi svegliato a seguito di un suono e di aver scoperto il timoniere (Jelestine) già deceduto. Nel mentre, transitava una nave la cui descrizione è coerente con quella della Lexie — riporta l’inchiesta — che apriva il fuoco contro la sua imbarcazione con il “continuous firing” da circa 200 metri di distanza provocando la morte di un secondo membro dell’equipaggio, Aiesh».
A bordo erano presenti 11 pescatori: tutti dormono dopo una notte di pesca, gli unici svegli sono quelli che moriranno, e forse lo stesso timoniere si era assopito. L’unico a testimoniare sarà il proprietario Freddy, svegliato dal suono delle sirene. Quindi la barca avrebbe avanzato senza essere governata fino ad andare in rotta di collisione con la petroliera italiana. Gli inquirenti, concludono: «E’ singolare che, pur avendo diritto di precedenza, una piccola imbarcazione facilmente manovrabile rimanga su rotta di collisione con una petroliera fino a meno di 100 metri, esponendosi ad enormi rischi per la navigazione (...) Tali evidenze hanno fatto valutare come una minaccia il comportamento del natante da parte del personale presente a bordo di E. Lexie».
Chi dette l’autorizzazione alla petroliera di rientrare in porto? Questo ormai è chiaro. Il ministro della Difesa, nel novembre scorso, rispose così: «L’autorizzazione a procedere verso le acque territoriali indiane è stata data dalla compagnia armatrice, una volta contattata dal comandante della nave. Ciò tuttavia, per la presenza del Nucleo militare di protezione di bordo è avvenuto a seguito di preventiva informazione della catena di comando militare nazionale». La decisione fu dell’armatore, la Marina diede il suo nulla osta, ma è chiaro perché, e il rapporto Piroli lo spiega: l’equipaggio aveva ricevuto una telefonata sul telefono Inmarsat, la Guardia Costiera indiana chiedeva alla Lexie di tornare in porto per identificare due battelli di pirati. La collaborazione giudiziaria con la polizia indiana non era un optional.
Il rapporto ha un intero, delicatissimo paragrafo sulle prove balistiche effettuate dalla polizia indiana alla presenza di ufficiali dei Ros e del Ris dei Carabinieri. «Per completezza di informazione si sintetizzano i risultati cui sarebbero giunte le autorità indiane (...) sono stati analizzati 4 proiettili, 2 rinvenuti sul motopesca e 2 nei corpi delle vittime. E’ risultato che le munizioni sono del calibro Nato 5,56mm fabbricate in Italia. Il proiettile tracciante estratto dal corpo di Valentine Jelestine è stato esploso dal fucile con matricola assegnata al sottocapo Andronico. Il proiettile estratto dal corpo di Ajiesh Pink è stato esploso dal fucile con matricola assegnata al sottocapo Voglino ».
Le prove balistiche indiane individuerebbero quindi non solo che i proiettili sono italiani, ma anche che provengono da fucili mitragliatori assegnati ad altri 2 fra i 6 membri del Nucleo del Battaglione San Marco. La relazione della Marina a questo punto non esclude nulla: «Qualora dovessero essere confermati i risultati ottenuti dalle prove indiane o se, a seguito di ulteriore attività forense riconosciuta anche dalla parte italiana, si riscontrasse l’attribuibilità dei colpi ai militari italiani, a quel punto, nelle pertinenti sedi giudiziarie dovrà essere appurato se l’azione di fuoco è stata interamente condotta con la finalità di effettuare tiri di avvertimento in acqua erroneamente o accidentalmente finiti a bordo», oppure se si sia deciso intenzionalmente di «indirizzare il tiro a bordo del natante». Questo soltanto se le prove balistiche indiane saranno confermate. Ma ormai una cosa è sicura: sarà la giustizia indiana a tenere il processo sulla morte di Valentine Jelestine e Ajiesh Pink, e terrà conto delle prove della sua polizia.