Raghuram Rajan, Il Sole 24 Ore 7/4/2013, 7 aprile 2013
MENO DEBITI A BREVE PER BANCHE PIÙ SICURE
Di rado un dibattito pubblico ha mezze tinte. La durata di attenzione dell’opinione pubblica è alquanto breve e i dettagli tendono a confondere le acque. Meglio assumere quindi una posizione chiara, quantunque errata, così che il messaggio arrivi. Quanto più incisivo e penetrante è questo messaggio, tante più probabilità avrà di catturare l’attenzione, essere ripetuto, e impostare i termini del dibattito.
Si consideri, per esempio, il dibattito in corso sulla regolamentazione delle banche. Di questi tempi i banchieri sono pesantemente infamati. Di conseguenza, qualsiasi detrattore che goda di un prestigio intellettuale tale da far piazza pulita della cortina di fumo con la quale i banchieri hanno ricoperto ogni loro attività, e che riesca a ritrarli come incompetenti e farabutti al tempo stesso troverà un pubblico attento. Il messaggio dei detrattori - le banche devono essere ridimensionate - trova per questo motivo vasta eco.
I banchieri, naturalmente, possono non prendere in considerazione chi li accusa e l’opinione pubblica, e utilizzare i loro soldi per fare lobby, esercitando pressioni negli ambienti giusti e mantenendo così i loro privilegi. Ogni tanto, tuttavia, capita che qualche banchiere stufo marcio di essere presentato all’opinione pubblica come un farabutto dia in escandescenze. A quel punto egli (di solito si tratta di un uomo) mette in guardia l’opinione pubblica che anche le regolamentazioni più moderate imposte alle banche finiranno col provocare la fine della civiltà così come la conosciamo. E così lo strepito prosegue, mentre l’opinione pubblica non per questo è più consapevole.
È illuminante al riguardo un esempio più specifico. Prima della recente crisi, un numero significativo di banche operava ad altissimi livelli di leva finanziaria, in alcuni casi con un rapporto debito/equity di 30 a 1 (o anche superiore), e con buona parte del debito in scadenza a breve termine. Si potrebbe logicamente concludere che le banche abbiano operato con un capitale di rischio troppo esiguo e con un margine di sicurezza troppo irrilevante, e che una risposta normativa sensata dovrebbe imporre alle banche di essere capitalizzate meglio.
Ed è qui che il consenso si spacca. I detrattori delle banche vogliono che queste operino con una leva finanziaria di gran lunga inferiore, soprattutto per ciò che concerne l’erogazione di prestiti a breve termine; per meglio dire, alcuni vorrebbero banche all-equity, così che il sistema diventi sicuro. I banchieri ribattono che loro devono pagare rendimenti maggiori su ogni singola equity che emettono, e di conseguenza un numero maggiore di equity vorrebbe dire aumentare la loro spesa del capitale, costringendoli ad aumentare i tassi di interesse sui prestiti che erogano, e tutto ciò in definitiva colpirebbe la loro attività economica.
Nessuna delle parti ha ragione in toto nell’argomentare la propria idea davanti all’opinione pubblica. I banchieri non sembrano affatto aver compreso un assioma fondamentale della finanza moderna: il rischio nasce dagli asset che una banca possiede. Secondo il teorema di Modigliani-Miller, il mix di debito ed equity che essa utilizza per finanziare i propri asset non modifica le sue spese medie di finanziamento. Utilizzando un debito più "economico", il capitale di rischio diventa più rischioso e costoso, mentre restano pressoché immutate le spese complessive del finanziamento. Utilizzando più capitale di rischio, esso diventa meno soggetto alla leva finanziaria e meno rischioso, il che induce gli investitori a chiedere profitti minori per tenerlo, e anche in questo caso le spese complessive finanziarie restano immutate. In altre parole, dato un insieme di flussi di cassa da asset bancari, il valore della banca non è influenzato dalle modalità con le quali quei flussi di cassa sono distribuiti tra gli investitori, e di conseguenza una maggiore leva finanziaria non riduce i costi di finanziamento delle banche.
Se la loro tesi ufficiale è errata (e loro devono saperlo), perché i banchieri preferiscono l’indebitamento a breve termine al finanziamento con capitale di rischio a lungo termine? I detrattori di questa politica direbbero che ciò dipende dalla preferenza fiscale accordata al debito, oppure dal fatto che le banche sono troppo grandi per fallire.
Queste tesi, tuttavia, non reggono a una scrupolosa analisi. Se la deducibilità fiscale dell’interesse rendesse affascinante il debito, allora i banchieri dovrebbero essere del tutto indifferenti quando scelgono tra il debito a lungo termine e quello a breve termine. Eppure sembra proprio che prediligano il secondo.
Nello stesso modo, le banche troppo grandi per fallire non si preoccuperebbero del rischio di fallimento associato al finanziamento del debito. Ma, anche in questo caso, non è chiaro perché dovrebbero preferire il debito a breve termine. Dopo tutto, se i banchieri cercassero di approfittarsene, non emetterebbero forse titoli di debito a lungo termine, per i quali il rischio di default e l’utile proveniente dall’implicita garanzia di governo sono elevati? Oltretutto, perché le piccole banche, che non hanno un sostegno senza riserve da parte del governo, hanno anch’esse così tanta leva finanziaria?
Le argomentazioni dei detrattori sui vantaggi del capitale di rischio sono altrettanto insoddisfacenti. Naturalmente, dato un insieme di asset bancari, un maggior capitale di rischio ridurrebbe il rischio di fallimento. Ma il fallimento non sempre è qualcosa di negativo. Un banchiere che gestisse una banca all-equity, e che non abbia mai necessità di ripagare gli investitori, avrebbe maggiori probabilità di accollarsi un rischio ingiustificato. L’esigenza di ripagare o reinvestire immediatamente il debito impone disciplina e dà al banchiere un incentivo maggiore a gestire prudentemente il rischio.
Per esempio, quando nel 2008 fallì Washington Mutual, a seguito di un’incontrollata smania di erogare prestiti (quello fu il più grande fallimento bancario dell’intera storia americana), non accadde perché i proprietari di capitale di rischio decisero di cessare ogni operazione, ma perché i correntisti non si fidavano più. Quanto valore in più avrebbe distrutto il management della Washington Mutual se la banca fosse stata finanziata esclusivamente da capitale di rischio?
In sintesi, i compromessi ci sono. Un indebitamento troppo a breve termine rende le banche più inclini a fallire, mentre troppo capitale di rischio esercita pochi vincoli e solo in parte sulle capacità dei banchieri di distruggere valore. La verità sta sicuramente da qualche parte, a metà strada tra le posizioni degli odierni striduli critici e i banchieri indignati, e ciò potrebbe spiegare per quale motivo le banche con una moderata leva finanziaria sono da un migliaio di anni a questa parte una caratteristica fondamentale delle economie occidentali. La nostra profonda antipatia nei confronti dei banchieri non deve permetterci di distruggere le banche.
(Traduzione di Anna Bissanti)