Eva Cantarella, Corriere della Sera 08/04/2013, 8 aprile 2013
NON CERCATE A ROMA I PADRI DI OGGI
Troia è in fiamme: Enea abbandona la città, con sulle spalle il padre Anchise e accanto a sé, stretto alle ginocchia, il figlioletto Iulo. Realizzato da Bernini tra il 1618 e il 1619, è uno dei gruppi statuari più celebri del mondo. E come tutte le opere d’arte è anche un documento capace di gettare squarci di luce sulla storia del periodo al quale riconduce: nella specie, la storia di Roma, a far da mediatori con la quale sono i versi con cui nel secondo canto dell’Eneide Virgilio descrive la fuga dell’eroe al quale ricollegava le origini di Roma. Il gruppo berniniano, infatti, segue fedelmente i versi del poeta, traducendo in immagine fisica l’idea, che Virgilio vuole trasmettere, dell’importanza della discendenza come fondamento della continuità della stirpe e della saldezza di Roma.
Un problema storiografico importante, l’eterno problema del rapporto tra padri e figli, attualmente al centro di un intenso dibattito tra sociologi, antropologi, politologi e psicoanalisti, impegnati su temi come la crisi del valore simbolico della paternità e la cosiddetta «evanescenza» dei padri.
Ma veniamo a Roma. Come erano, allora, i rapporti tra generazioni? Per cercare di capirlo bisogna partire da una frase di Gaio (secondo secolo d.C.): «Non esistono altri uomini che abbiano sulla propria discendenza un potere come quello che noi abbiamo sulla nostra». Difficile dissentire: il potere romano sui figli comprendeva il diritto di percuoterli, di decidere se, quando e con chi questi dovessero contrarre matrimonio (nonché di interrompere il loro matrimonio, anche contro la loro volontà), di venderli e persino di ucciderli. Ma l’aspetto più interessante della patria potestas era la sua perennità: a differenza di quel che accadeva in altre società antiche, ad esempio, ad Atene (e di quel che accade oggi) la patria potestà non cessava quando i figli diventavano maggiorenni. Essa durava fino a quanto il padre era in vita. Conseguenza: poiché per il diritto civile romano il pater era il solo titolare di diritti all’interno della famiglia, i figli, non avendo un patrimonio proprio, dipendevano economicamente da lui. Quale che fosse la loro età. La famiglia, insomma, era un gruppo quintessenzialmente patriarcale, composto da due, tre, perfino quattro generazioni e dominato da un capo dai poteri di tipo fondamentalmente gerarchico.
Ma alcuni decenni or sono è stata avanzata una nuova e diversa teoria: a partire dal momento in cui possiamo seguirne le tracce attraverso i documenti del tempo (vale a dire a partire dal secondo secolo a.C.), la famiglia romana non sarebbe una famiglia patriarcale, ma un piccolo gruppo di persone (padre, madre, un paio di figli), simile a una moderna famiglia nucleare. Il pater familias nonostante l’ampiezza dei suoi poteri, non li avrebbe esercitati se non eccezionalmente, prendendosi cura dei figli e rispettando la loro dignità e personalità. Una vera e propria riconversione della figura paterna.
Possiamo credere a questa nuova e diversa immagine della famiglia romana? Per cercare di rispondere, cominciamo col ricordare che, nel momento stesso in cui veniva alla luce, il figlio veniva deposto ai piedi del padre, che poteva sollevarlo da terra, acquistando con questo la patria potestà su di lui; o poteva lasciarlo dove si trovava, destinandolo all’abbandono. Poche cerimonie, pochi gesti sono altrettanto significativi di un potere discrezionale come quello di un pater. Ma proseguiamo, seguiamo il figlio fino al momento in cui raggiunge la maggiore età. A questo punto — se maschio, ovviamente — acquista la capacità giuridica in campo politico. Può votare e ricoprire cariche pubbliche, può diventare pretore, questore o console, con la visibilità e il potere che questo comporta. Ma nonostante la sua età e il nuovo status egli continua a essere sottoposto al padre. Una contraddizione enorme, che poteva essere devastante. Soprattutto in campo economico. Nell’attesa che il padre abbandonasse questo mondo (pensiero ed evento che purtroppo faceva da sottofondo alla vita dei figli) questi tentavano di risolvere i loro problemi ricorrendo al credito, cadendo nelle mani degli usurai, le cui pressioni, quando la morte del padre tardava a verificarsi, erano tali che non di rado i figli, assoldando dei sicari o più spesso acquistando del veleno, si liberavano o quantomeno tentavano di liberarsi dall’ipoteca rappresentata dalla vita paterna.
Il problema era tale che una legge attorno al 55 a.C. ordinò di punire come parricida il figlio che avesse comprato veleno per uccidere il padre, anche se non glielo aveva somministrato. Un passo di Ulpiano conferma: «Chi ha prestato danaro a un figlio sapendo che questi intendeva usarlo per acquistare veleno o assoldare un sicario per uccidere il padre verrà punito come parricida». E per finire sotto Vespasiano venne approvato un provvedimento secondo il quale chi prestava denaro a un filius familias non poteva chiederne giudizialmente la restituzione neppure dopo la morte del padre del suo debitore. Indipendentemente dal numero dei parricidi effettivamente commessi, il parricidio era una tale ossessione, per i romani, che forse non ha tutti i torti Paul Veyne a parlarne come di una «nevrosi nazionale».
Certo, ai nostri occhi la cosa è inquietante. Preferiremmo indubbiamente un quadro che mostrasse padri e figli in un rapporto diverso, che si accordasse — se non sempre con la realtà — quantomeno con l’ideale del nostro modello familiare. Ma a Roma così non era. Con il che, sia ben chiaro, non intendo dire che i padri romani non amassero i figli, o che i figli non amassero i padri. Certamente, si amavano, ma lo facevano in un mondo in cui la patria potestas determinava i comportamenti e modellava le emozioni.
È sbagliato e impossibile misurare i sentimenti di un tempo con il metro della nostra morale e la nostra mentalità, come fa, io credo, chi proietta sulla famiglia romana un modello che ci piacerebbe fosse la regola della famiglia odierna. Guardando al passato dobbiamo astenerci dai giudizi comparativi. L’unica cosa che possiamo fare è ricordare che i padri e i figli romani si amavano nel passato, e come scrive L.P. Hartley, nell’incipit del suo bellissimo The go-between, in italiano L’età inquieta (attacco diventato il titolo di un romanzo di Carofiglio): «Il passato è un paese straniero. Si fanno le cose in modo diverso lì». Compreso il modo di amare.
Eva Cantarella